TRIBUTI: rassegna stampa N° 8/2025
Rassegna stampa mensile
IMU | TARI | TRIBUTI MINORI
Custodi di equilibrio e rigore: le sfide dei tributi locali nel mese appena trascorso
Cari custodi Responsabili dei tributi comunali, benvenuti al settimo numero della Newsletter Tributi del 2025.
Anche questo mese proseguiamo insieme il nostro viaggio tra norme, sentenze e prassi operative, con l’obiettivo di offrire strumenti concreti e aggiornati per affrontare con consapevolezza e rigore l’attività quotidiana negli uffici tributi.
Partiamo da un caso concreto: come ci dobbiamo comportare in caso di fallimento se il Comune non si è insinuato nel passivo? Le differenze che scaturiscono ante apertura del fallimento non possono essere più accertate mentre per le differenze post apertura è necessario aspettare che il Curatore versi gli importi dovuti al termine della procedura.
Per quanto riguarda i temi della rassegna stampa di questo mese tratteremo gli alloggi sociali per i quali risulta necessario il requisito della residenza ai fini dell’esenzione IMU mentre in tema di Ici, analogamente all’Imu, viene ritenuta illegittima la previsione di esenzione dell’abitazione principale, nella parte in cui condiziona l’esonero alla dimora dell’intero nucleo familiare nell’unità abitativa.
Troveremo due articoli relative al settore agricolo che evidenziano come le agevolazioni in favore dei coltivatori diretti siano operative a prescindere dai redditi e come l’iscrizione alla previdenza agricola costituisca l’unica condizione richiesta per la fruizione dei benefici fiscali in capo ai pensionati agricoli.
Evidenziano come l’obbligo della presentazione della dichiarazione Tari sia lo strumento fondamentale ai fini di poter godere delle agevolazioni previste dalla norma.
Ci soffermeremo sul trattamento contabile delle componenti perequative TARI da riversare a cassa servizi energetici e ambientale per la gestione dei rifiuti raccolti in mare.In tema di CUP affronteremo una sentenza della Cassazione che ritiene che per il servizio idrico si paghi per due distinte reti: acqua potabile e fognatura.
Analizzeremo la sentenza della Cassazione nella quale viene ribadita la validità del nuovo sistema sanzionatorio a partire dalle violazioni commesse dal 1° settembre 2024 come stabilito dall’articolo 5 del Dlgs 87/2024.
Vedremo la sentenza di Corte di Giustizia Tributaria che ritiene soggetto a Tari un impianto fotovoltaico.
Non da ultimo, un interessante articolo riguardante una precisazione della giurisprudenza amministrativa sul potere dei Comuni, e per essi del Suap, di ordinare la chiusura di un’attività commerciale o di inibirne l’avvio in caso di mancato regolare pagamento dei tributi locali.
Chiudiamo con un concetto che riassume bene il senso del nostro lavoro: presidio. Essere responsabili dei tributi oggi significa presidiare con attenzione ogni norma, ogni scadenza, ogni sentenza. Ma anche ascoltare, interpretare, guidare. Questa newsletter vuole essere uno strumento per farlo meglio, ogni mese.
Con stima e fiducia in un domani più equo,
Paolo Finotto
PROBLEMATICA/QUESITO
Il Comune ha notificato alla Società che rappresento gli avvisi di accertamento per gli anni dal 2021 al 2024.
La società è stata dichiarata fallita il 28 giugno 2023 e la procedura si è appena conclusa.
Il Comune ha operato correttamente?
Soluzione:
No, il Comune avrebbe dovuto calcolare gli avvisi per gli anni 2021, 2022 e per 6 mesi del 2023 (comprensivi di sanzioni e interessi) e insinuarsi nel passivo della procedura fallimentare. Essendo la procedura conclusa e non essendosi insinuato neanche tardivamente, tali annualità risultano non più verificabili.
Nulla poteva richiedere alla Società per i restanti 6 mesi del 2023 e per le annualità successive.
E’ obbligo del curatore versare l’imposta dovuta per il periodo del fallimento entro 3 mesi dalla vendita degli immobili.
Rassegna stampa |
1 luglio 2025 | Fonte: https://ntplusentilocaliedilizia.ilsole24ore.com
Tassa di soggiorno, gettito vicino al miliardo: nuove sfide tra lotta all’evasione e controlli digitali
Il gettito della tassa di soggiorno si avvicina ormai alla soglia del miliardo di euro l’anno, confermandosi una delle voci più vivaci e strategiche nei bilanci comunali italiani. Sono oltre 1.300 i comuni che hanno adottato questo tributo, spinti da una ripresa dei flussi turistici nel periodo post-pandemico e da un progressivo ampliamento dell’imposta ai territori a forte vocazione turistica. Un’espansione, però, che continua a scontrarsi con l’irrisolto problema dell’evasione e con le sfide poste dalla transizione digitale dei controlli.
Il 30 giugno 2025 rappresenta una data cruciale, segnando il termine per la presentazione delle dichiarazioni relative al 2024. Il settore si trova così a operare in un contesto profondamente trasformato dall’obbligo di digitalizzazione degli adempimenti. Dal 2022, infatti, l’introduzione del modello ministeriale approvato dal Mef e le modalità di trasmissione telematica definite dall’Agenzia delle entrate hanno reso completamente digitale il processo dichiarativo. Quello del 2025 sarà il terzo ciclo effettivo di dichiarazioni online, coinvolgendo non solo le strutture ricettive tradizionali, ma anche i gestori degli affitti brevi, sempre più rilevanti nel panorama turistico nazionale. I dati relativi al 2024 confermano il trend di crescita del tributo, offrendo una fotografia più dettagliata delle dinamiche in atto.
L’innovazione più incisiva degli ultimi mesi riguarda l’introduzione del codice identificativo nazionale (Cin), operativo da novembre 2024 in base al decreto del Ministero del Turismo. Oggi ogni annuncio di locazione breve deve riportare il proprio codice identificativo e quest’ultimo deve essere esposto anche nell’immobile interessato. Si tratta di uno strumento previsto dal decreto-legge 145/2023, convertito nella legge 191/2023, che consente di associare in modo univoco ciascun annuncio a uno specifico immobile, facilitando i controlli incrociati tra piattaforme online, banche dati comunali e dichiarazioni fiscali. Una rivoluzione che promette di innalzare significativamente il livello di tracciabilità dell’intero comparto.
Nonostante questi passi avanti sul fronte tecnologico, l’evasione continua a rappresentare l’ostacolo principale alla piena efficacia della tassa di soggiorno. Il fenomeno si manifesta attraverso locazioni turistiche completamente non dichiarate o dichiarate solo in parte, attività di locazione breve svolte occasionalmente da soggetti spesso ignari dei propri obblighi tributari, e difficoltà nel documentare correttamente le esenzioni previste dai regolamenti comunali. A complicare il quadro, si aggiunge la frammentazione normativa dovuta all’assenza di un regolamento attuativo nazionale, che ha spinto i Comuni a disciplinare l’imposta con propri regolamenti, generando un mosaico eterogeneo sul territorio.
La necessità di contrastare l’evasione ha portato molti Comuni a dotarsi di strumenti tecnologici sempre più evoluti per il monitoraggio delle presenze turistiche. Si va dai software capaci di intercettare automaticamente annunci sui principali portali online, all’analisi dei flussi di pagamenti elettronici per scoprire eventuali discrepanze tra incassi e presenze dichiarate, fino a controlli congiunti tra uffici tributi e polizia locale, inclusi sopralluoghi mirati. Questa evoluzione digitale si rivela particolarmente preziosa per i Comuni di medie e piccole dimensioni, dove le risorse umane disponibili per i controlli restano spesso limitate.
L’impianto sanzionatorio previsto per i casi di mancato o inesatto assolvimento degli obblighi dichiarativi sull’imposta di soggiorno costituisce senza dubbio uno strumento deterrente contro l’evasione, anche se la capacità effettiva di effettuare controlli risulta ancora disomogenea sul territorio nazionale.
La sfida per il 2025 si presenta dunque su due fronti: da un lato, garantire il massimo gettito possibile attraverso un contrasto sempre più incisivo alle irregolarità; dall’altro, evitare di appesantire gli adempimenti burocratici per gli operatori in regola, salvaguardando la competitività turistica dei territori.
Come osservato dalla Corte dei conti in diverse relazioni sul coordinamento della finanza pubblica, l’imposta di soggiorno presenta ancora criticità legate alla gestione non uniforme e all’efficacia variabile dei controlli, rendendo necessario trovare un equilibrio tra rigore fiscale e semplificazione amministrativa.
Fondamentale, in questo scenario, resta l’attività di informazione rivolta soprattutto ai piccoli locatori occasionali, che spesso ignorano gli obblighi previsti e le conseguenze delle violazioni. Solo un approccio capace di integrare controlli mirati e supporto informativo potrà consolidare i risultati ottenuti finora e garantire uno sviluppo sostenibile del comparto turistico.
Non meno rilevante è il tema della trasparenza nell’utilizzo del gettito: sebbene l’articolo 4 del decreto legislativo 23/2011 abbia stabilito che i proventi siano destinati a interventi per il turismo, l’ambiente e i beni culturali, diverse pronunce della Corte dei conti hanno sottolineato la necessità di un legame più chiaro e diretto fra le risorse incassate e gli obiettivi indicati dal legislatore.
L’imposta di soggiorno si conferma così non solo uno strumento importante per le finanze locali, ma anche un banco di prova per la modernizzazione digitale della fiscalità locale e per il monitoraggio di flussi turistici in continua evoluzione. Nei prossimi anni, sarà determinante la capacità di coniugare innovazione tecnologica, efficacia dei controlli e semplificazione degli adempimenti per assicurare il pieno successo di questo tributo.
1 luglio 2025 | Fonte: https://smart24tributilocali.ilsole24ore.com
Alloggi sociali: necessario il requisito della residenza ai fini dell’esenzione IMU
La CGT di primo grado di Bergamo ha stabilito che rientrano nella definizione di alloggio sociale con diritto all’esenzione dall’IMU esclusivamente gli immobili adibiti ad abitazione principale con dimora e residenza dell’assegnatario.
Ai sensi del settimo comma dell’art. 2 del D.M. 22/04/2008, rientrano nel novero degli “alloggi sociali”, cui spetta l’esenzione, solo gli immobili locati, oltreché muniti di specifiche caratteristiche tecniche ed edilizie idonee a garantire la salubrità, la sicurezza, la sostenibilità ambientale e il risparmio energetico.
Detta norma, pertanto, non ha introdotto un’esenzione dall’imu generalizzata per tutti gli immobili che in base alle varie legislazioni regionali sono destinati all’housing sociale, bensì ai soli “alloggi sociali” aventi i requisiti previsti dall’art.2 del decreto ministeriale del 2008.
https://smart24tributilocali.ilsole24ore.com/#showdoc/43812243
1 luglio 2025 | Fonte: https://smart24tributilocali.ilsole24ore.com
TARI, obbligo dichiarativo per superfici esenti
L’ordinanza Cassazione n. 8846/2025 in materia di TARI, conferma l’obbligo dichiarativo per ottenere l’esenzione dal tributo sulle superfici di produzione dei rifiuti speciali, con onere dimostrativo a carico del richiedente.
La ricorrente non aveva “individuato specificatamente le aree da ritenersi produttive in modo continuativo e prevalente di rifiuti speciali non assimilabili agli urbani”, cosicché, a seguito dell’attività di controllo effettuata dall’Ufficio Tributi, erano state escluse dalla tassazione “solamente le aree occupate dal ponte officina cambio gomme, dal ponte centro revisione e dalla zona ingombro buche, in cui effettivamente…(era)… stata riscontrata la produzione continuativa e prevalente di rifiuti speciali pericolosi, mentre…(erano)… risultate tassabili le ulteriori superfici destinate ad officina, a centro revisione e a deposito gomme.
Le deroghe alla tassazione quanto le riduzioni delle superfici e tariffarie non operano in via automatica, in base alla mera sussistenza delle previste situazioni di fatto, dovendo, invece, i relativi presupposti essere di volta in volta dedotti nella denuncia originaria o in quella di variazione (cfr. Cass., 13 agosto 2004, n. 15867 cui adde Cass., 17 settembre 2019, n. 23059; Cass., 3 marzo 2010, n. 5036; Cass., 15 aprile 2005, n. 7915; v., altresì, Cass., 23 febbraio 2018, n. 4602; Cass., 13 settembre 2017, n. 21250; Cass., 31 luglio 2015, n. 16235; nonché, tra le stesse parti, Cass., 12 dicembre 2019, n. 32741, cit.)
https://smart24tributilocali.ilsole24ore.com/#showdoc/43812337
4 luglio 2025 | Fonte: https://ntplusfisco.ilsole24ore.com
Coltivatori diretti senza Imu a prescindere dai redditi
Agevolazione riconosciuta senza verifica della quota di entrate da attività agricola. Profilo e requisiti differenti da quelli per l’imprenditore agricolo professionale
L’ordinanza 14915/2025 della Cassazione ha demarcato la linea di confine tra la figura dell’imprenditore agricolo professionale (Iap) di cui al Dlgs 99/2004 e il coltivatore diretto, ai fini dell’esenzione Imu per i terreni agricoli e edificabili posseduti e direttamente condotti.
Nella controversia vagliata, il comune impositore disconosceva il diritto all’esenzione in quanto il soggetto passivo, pur rispettando i requisiti imposti dalla normativa Imu (possesso del fondo; persistenza dell’utilizzazione agro-silvo-pastorale; qualifica soggettiva di coltivatore diretto o di imprenditore agricolo professionale; iscrizione nella previdenza agricola), possedeva redditi in prevalenza non legati all’attività agricola. I giudici dell’appello concordavano con l’ente sulla scorta dell’articolo 1, comma 1, del Dlgs 99/2004 che definisce l’imprenditore agricolo professionale come colui il quale, in possesso di conoscenze e competenze professionali specifiche, dedichi alle attività agricole, direttamente o in qualità di socio di società, almeno il 50% del proprio tempo di lavoro complessivo per trarne almeno il 50% del proprio reddito globale da lavoro.
Il contribuente, tuttavia, aveva provato nei gradi di merito di non rivestire la qualifica di imprenditore agricolo professionale, ma di coltivatore diretto che, come tale, invocava l’esenzione. Quest’ultima figura, molto più risalente nel tempo, è definita da norme di carattere speciale, cui i giudici hanno attinto, in virtù della quali è richiesto che il coltivatore diretto si dedichi direttamente e abitualmente alla coltivazione del fondo, con lavoro proprio o della sua famiglia (articolo 48 legge 454/1961, articolo 6 legge 203/1982, articolo 2 legge 1047/1957). Ciò lo differenzia, in una pacifica coesistenza, dall’imprenditore agricolo professionale che «non è tenuto direttamente a provvedere alla coltivazione del fondo, ma è sufficiente che lo stesso conduca direttamente il terreno agricolo, anche a mezzo di maestranze», svolgendo attività di direzione e controllo. Al coltivatore diretto non è richiesto che l’attività agricola produca almeno il 50 per cento del suo «reddito globale da lavoro» con la conseguenza che, ove non sussista tale condizione, l’esenzione Imu va comunque riconosciuta.
La recente pronuncia, in verità, presta il fianco a un paio di considerazioni. Deve anzitutto evidenziarsi che trascura la legge 9/1963, recante il «riordinamento delle norme in materia di previdenza dei coltivatori diretti», secondo il cui articolo 2 l’attività prevalente del coltivatore diretto non solo è quella a cui presti il maggior tempo lavorativo, ma che rappresenti la sua «maggior fonte di reddito».
In secondo luogo, occorre conciliare le recenti statuizioni con l’oculata ordinanza 18083/2023 della Cassazione secondo la quale l’iscrizione nella previdenza agricola non implica e giustifica accertamenti reddituali da parte del comune. L’iscrizione previdenziale, difatti, presuppone che lo svolgimento di una diretta, abituale e manuale coltivazione dei fondi, o di un diretto ed abituale governo del bestiame, costituisca la prevalente fonte di reddito dell’agricoltore. L’iscrizione previdenziale, in altri termini, certifica il rispetto del requisito soggettivo al fine della legittima fruizione dell’esenzione fiscale. La previgente come l’attuale legislazione Imu, d’altra parte, non impongono requisiti soggettivi reddituali in capo al soggetto passivo, ma la sola condizione che quest’ultimo sia un coltivatore diretto o un imprenditore agricolo professionale iscritto nell’apposita gestione previdenziale. Sono le norme previdenziali, al contrario, a imporre requisiti reddituali. A parere dell’ordinanza 18083/2023, il graduale venir meno della necessità della prevalenza del reddito dell’attività agricola sui redditi provenienti da altre fonti è desumibile da una lettura sistematica delle disposizioni succedutesi nella legislazione Imu che impongono l’esclusivo requisito dell’iscrizione nella previdenza agricola senza nulla affermare e pretendere con riferimento ad aspetti reddituali.
8 luglio 2025 | Fonte: https://smart24tributilocali.ilsole24ore.com
Decorrenza del termine di notifica in caso di PEC satura
La decorrenza del termine di 20 giorni per la proposizione dell’opposizione formale non decorre dalla data di ricezione della raccomandata informativa inviata dall’Esattore al contribuente per avvisarlo del deposito telematico dell’atto da notificare nell’area riservata del sito internet della società InfoCamere Scpa, bensì dal quindicesimo giorno successivo a quello del deposito telematico dell’atto nell’area riservata. (Cassazione n. 13132/2025)
Il caso è relativo a una notifica diretta via pec di atto tributario disciplinata dall’articolo 60 del DPR 600/73, con casella satura. La Corte ricorda che
Ai fini del rispetto dei termini di prescrizione e decadenza, la notificazione si intende comunque perfezionata per il notificante nel momento in cui il suo gestore della casella di posta elettronica certificata gli trasmette la ricevuta di accettazione con la relativa attestazione temporale che certifica l’avvenuta spedizione del messaggio, mentre per il destinatario si intende perfezionata alla data di avvenuta consegna contenuta nella ricevuta che il gestore della casella di posta elettronica certificata del destinatario trasmette all’ufficio o, nei casi di cui al periodo precedente, nel quindicesimo giorno successivo a quello della pubblicazione dell’avviso nel sito internet della società InfoCamere Scpa. (…)
il procedimento notificatorio previsto dal citato art. 60 comma 7, nel testo applicabile ratione temporis, prevedeva:
-il deposito telematico dell’atto nell’area riservata del sito internet della società InfoCamere Scpa;
-la pubblicazione, entro il secondo giorno successivo a quello di deposito, del relativo avviso nello stesso sito, per la durata di quindici giorni;
-la successiva notizia al destinatario dell’avvenuta notificazione dell’atto a mezzo di lettera raccomandata, senza ulteriori adempimenti a carico del notificante.
Secondo la Corte, contrariamente a quanto ritiene il ricorrente, tale iter di notifica non ricalca lo schema della notificazione agli irreperibili (nel cui ambito la prevista raccomandata informativa costituisce indubbio elemento essenziale per il suo perfezionamento), ma costituisce una deroga allo schema della notificazione per posta elettronica: e, pertanto, la notifica si ha per perfezionata a prescindere dalla data di ricezione della raccomandata di avviso o di conferma.
Che sia così si desume dallo stesso testo normativo, che:
- a) esordisce affermando di essere in deroga all’art. 149 bis c.p.c.;
- b) prevede che al destinatario dell’atto deve essere data notizia dell’<<avvenuta notifica>>: ciò che dà conto del fatto che la notifica è già avvenuta e, quindi, perfezionata;
- c) prevede espressamente che, sia pure <<Ai fini del rispetto dei termini di prescrizione e decadenza>>, ma con disposizione con ogni evidenza suscettibile di generalizzazione, <<la notificazione si intende comunque perfezionata … per il destinatario … nel quindicesimo giorno successivo a quello della pubblicazione dell’avviso nel sito internet della società InfoCamere Scpa.
https://smart24tributilocali.ilsole24ore.com/#showdoc/43844377
8 luglio 2025 | Fonte: https://smart24tributilocali.ilsole24ore.com
Tari dovuta su impianto fotovoltaico
Il Comune ha emesso nei confronti della Società ricorrente richiesto il pagamento della TARI in riferimento ad una superficie parziale pari a mq. 13.500, rispetto alla totale estensione dell’impianto fotovoltaico che risulta essere di oltre mq. 20.000, assoggettando, quindi, a tassazione esclusivamente le strade di passaggio e gli spazi di manovra, escludendo la superficie occupata da ogni singolo pannello, rilevando che sul terreno vi è la presenza umana in maniera sistematica e ripetuta, quantomeno per lo sfalcio dell’erba, ragion per cui sarebbe stato necessario anche presentare l’apposita dichiarazione.
(CGT I GRADO ASCOLI PICENO n. 120/2025)
Il contribuente deduceva che l’impianto fotovoltaico è escluso dal tributo, dal momento che produce esclusivamente RAEE (moduli fotovoltaici) e rifiuti speciali non assimilati (strutture metalliche delle pensiline), al cui smaltimento è tenuto a provvedere a proprie spese il proprietario, nonché residui dello sfalcio di erbacce infestanti il pascolo, non soggette al tributo, evidenziando che la presenza dell’uomo sull’area è praticamente inesistente.
Secondo la CGT, la natura delle opere realizzate sul terreno, lascia emergere la costante presenza antropica sul suolo a causa della necessità degli interventi di operai e tecnici per l’effettuazione dei consueti controlli e delle ordinarie manutenzioni dei pannelli e delle tubazioni. La suscettibilità a generare rifiuti discende poi non solo dalla presenza di persone sul fondo, ma anche dalle predette necessità oggettive, giacché le superfici assorbenti delle radiazioni solari abbisognano di periodica pulizia in modo da asportarne i depositi e le polveri atmosferiche che, come evidente, fungerebbero da schermo riducendo il potere produttivo di calore e quindi di energia elettrica. La presenza dell’uomo è, altresì, necessaria per il taglio dell’erba che ovviamente non può essere lasciata crescere incolta proprio per evitare il rischio di incendi, né, a tal riguardo, risulta pertinente il richiamo fatto dal ricorrente all’esenzione prevista dal regolamento comunale per le superfici agricole produttive di sfalci e potature, dovendosi sottolineare come anche l’attività di manutenzione richiesta da tali rifiuti richieda sicuramente la presenza umana sul posto in maniera sistematica e ripetuta.
Per costante giurisprudenza, appare ormai pacifico che la tassa per la raccolta ed il trasporto dei rifiuti solidi urbani è dovuta quando sussistono due presupposti, costituiti, per un verso, dalla istituzione del servizio da parte del Comune, e per altro verso, dalla possibilità dell’utente di usufruirne, a prescindere dall’effettivo uso del medesimo da parte del singolo o dall’utilità concreta che questi ne tragga.
https://smart24tributilocali.ilsole24ore.com/#showdoc/43844365
8 luglio 2025 | Fonte: https://smart24tributilocali.ilsole24ore.com
La potesta’ regolamentare dei comuni in materia di esenzioni del CUP
Con la sentenza 266/2025, il Tar Cagliari chiarisce alcuni aspetti di rilievo sulla potestà regolamentare prevista in materia di canone unico dal comma 821, art. 1, della Legge 160/2019, in merito alle esenzioni.
In relazione alla vicenda sono stati richiesti al Condominio ricorrente somme dovute anche per l’occupazione del suolo pubblico effettuato con transenne posizionate dalla protezione civile in conseguenza del crollo per calamità naturale, per tutta durata dei lavori relativi al ponteggio edile. Il Comune ha infatti respinto la richiesta di esenzione in quanto il Regolamento non prevede tra le esenzioni quelle relative alle occupazioni per la messa in sicurezza e il ripristino di edifici ed aree dissestati a seguito di calamità naturali.
La parte ricorrente impugna il Regolamento nella parte in cui non prevede la calamità naturale tra i casi di esenzione dal pagamento del canone di occupazione del suolo pubblico. Richiama la discrezionalità riconosciuta ai comuni dalla legge statale istitutiva del canone unico patrimoniale per le ipotesi di esenzione e il fatto che numerosi altri comuni hanno previsto la calamità naturale tra le ipotesi di esenzione, sulla base del testo del regolamento proposto da ANCI e recepito dai comuni.
Il giudice amministrativo richiamando una decisione del Consiglio di Stato ricorda che le ragioni delle disposizioni regolamentari vanno, dunque, ricavate dal dibattito che ha preceduto l’adozione del regolamento (gli atti interni dell’organo deliberativo) e dagli atti istruttori precedenti la deliberazione e l’onere di motivazione risulta comunque soddisfatto con l’indicazione dei profili generali e dei criteri che sorreggono le scelte, senza necessità di una puntuale motivazione.
Ciò non significa, peraltro, che la discrezionalità che si invera nelle disposizioni regolamentari – come accade per la legge – sia sottratta ad ogni forma di controllo, ma solo che il controllo è rivolto agli effetti dell’atto, ossia a verificare se le prescrizioni in esso contenute non diano luogo ad effetti discriminatori, irragionevoli o non proporzionati per i suoi destinatari” (Cons. Stato, sez. V, 10 dicembre 2020, nn. 7904, 7905 e 7906).
Nel caso di specie, l’omessa previsione di una generalizzata ipotesi di esenzione dal pagamento del canone di occupazione del suolo pubblico per esigenze di protezione civile non risulta generare alcun effetto irragionevole o non proporzionato. L’ipotesi dell’esenzione del canone per calamità naturali non è prevista tra le esenzioni indicate ex lege dall’art. 1, comma 833 Legge 27 dicembre 2019, n. 160, ma il ricorrente ne lamenta l’omessa previsione in forza della clausola di cui all’art. 1, comma 821: “il canone è disciplinato dagli enti, con regolamento da adottare dal consiglio comunale o provinciale, ai sensi dell’articolo 52 del decreto legislativo 15 dicembre 1997, n. 446, in cui devono essere indicati: […] f. le ulteriori esenzioni o riduzioni rispetto a quelle disciplinate dai commi da 816 a 847”.
L’omessa previsione di una esenzione dal pagamento del canone per calamità naturali non appare determinare una ipotesi di esercizio del potere discrezionale di carattere arbitrario, irragionevole o illogico.
Senz’altro ciò non può discendere sic et simpliciter dalla previsione di tale ipotesi da parte di alcuni comuni italiani, essendo evidentemente un ragionamento giuridico fallace quello per cui tale circostanza determinerebbe un ingiustificato trattamento dei cittadini residenti nei comuni che tale ipotesi non prevedono.
Una siffatta considerazione è infatti valida soltanto per istituti quali i livelli essenziali delle prestazioni, ma non può semplicemente affermarsi che la circostanza che alcuni comuni adottino una disciplina del C.U.P. più favorevole per i privati determini che diverse discipline da parte di altri comuni siano illegittime per disparità di trattamento e violazione del principio di uguaglianza.
È invece la facoltà di prevedere ulteriori ipotesi di esenzione dal canone, appunto facoltative, che legittima e presuppone la possibilità che in alcuni comuni italiani tali ipotesi siano previste e in altri invece l’ente locale, nell’esercizio del proprio potere discrezionale regolamentare, non le contempli.
https://smart24tributilocali.ilsole24ore.com/#showdoc/43844407
8 luglio 2025 | Fonte: https://smart24tributilocali.ilsole24ore.com
TARI RIFIUTI SPECIALI PRODOTTI DA UTENZA NON DOMESTICA – DICHIARAZIONE
Un’attività artigianale di falegnameria chiede la rettifica dell’importo addebitato ai fini TARI sostenendo il diritto all’esenzione delle superfici di lavoro, adducendo che trattasi di aree caratterizzate anche dalla produzione di rifiuti speciali. Si chiedono indicazioni sul riscontro da dare.
Il quesito posto coinvolge due aspetti di rilievo nell’applicazione della TARI riguardanti la nuova disciplina dei rifiuti speciali e l’evoluzione giurisprudenziale sull’obbligo dichiarativo.
Una tappa normativa importante nell’applicazione della TARI è rappresentata dal d. lgs 116/2020, cosiddetto decreto sull’economica circolare dei rifiuti, attuazione della direttiva (UE) 2018/851. La norma ha prodotto diverse modifiche sulla gestione dei rifiuti delle utenze non domestiche, agendo sul codice ambientale, modificato per scrivere una nuova definizione di rifiuto urbano. Per molti anni l’applicazione della Tari alle attività economiche è stata fondata sul meccanismo di assimilazione affidato ai comuni grazie alla precedente definizione di rifiuto urbano.
La novità più impattante è la nozione di rifiuto urbano e speciale.
L’articolo 183 comma 1 del decreto legislativo 3 aprile 2006, n. 152 modificato, contiene alla lettera b-ter) la nuova nozione di “rifiuti urbani”, indicando alla lettera b sexies che i rifiuti urbani non includono i rifiuti della produzione, dell’agricoltura, della silvicoltura, della pesca, delle fosse settiche, delle reti fognarie e degli impianti di trattamento delle acque reflue, ivi compresi i fanghi di depurazione, i veicoli fuori uso o i rifiuti da costruzione e demolizione
I nuovi rifiuti urbani della lettera b-ter) dell’art. 183:
- i rifiuti domestici indifferenziati e da raccolta differenziata, ivi compresi: carta e cartone, vetro, metalli, plastica, rifiuti organici, legno, tessili, imballaggi, rifiuti di apparecchiature elettriche ed elettroniche, rifiuti di pile e accumulatori e rifiuti ingombranti, ivi compresi materassi e mobili;
- i rifiuti indifferenziati e da raccolta differenziata provenienti da altre fonti che sono simili per natura e composizione ai rifiuti domestici indicati nell’allegato L-quater prodotti dalle attività riportate nell’allegato L-quinquies;
- i rifiuti provenienti dallo spazzamento delle strade e dallo svuotamento dei cestini portarifiuti;
- i rifiuti di qualunque natura o provenienza, giacenti sulle strade ed aree pubbliche o sulle strade ed aree private comunque soggette ad uso pubblico o sulle spiagge marittime e lacuali e sulle rive dei corsi d’acqua;
- i rifiuti della manutenzione del verde pubblico, come foglie, sfalci d’erba e potature di alberi, nonché i rifiuti risultanti dalla pulizia dei mercati;
- i rifiuti provenienti da aree cimiteriali, esumazioni ed estumulazioni, nonché gli altri rifiuti provenienti da attività cimiteriale diversi da quelli di cui ai punti 3, 4 e 5.
b sexies. I rifiuti urbani non includono i rifiuti della produzione, dell’agricoltura, della silvicoltura, della pesca, delle fosse settiche, delle reti fognarie e degli impianti di trattamento delle acque reflue, ivi compresi i fanghi di depurazione, i veicoli fuori uso o i rifiuti da costruzione e demolizione.
Pertanto, anche le imprese producono rifiuti urbani ma solo a certe condizioni:
- I rifiuti devono essere quelli della tabella L quater
- I rifiuti devono essere prodotti dalle attività economiche della tabella L quinquies
La caratteristica della Tabella L quinquies è quella di essere stata ripresa dall’allegato al DPR 158/99 ma è diversa e va quindi tenuta distinta. Infatti, non comprende la Tipologia 20, volutamente esclusa per non contrastare con l’esclusione della lettera b sexies relativa ai rifiuti della produzione industriale
La lettura della norma va completata con l’analisi della nozione di rifiuto speciale contenuta nell’articolo 184 che presenta una formula intrecciata con l’articolo 183
- Sono rifiuti urbani i rifiuti di cui all’articolo 183, comma 1, lettera b-ter).»;
- Sono rifiuti speciali:
- a) i rifiuti prodotti nell’ambito delle attività agricole, agro-industriali e della silvicoltura, ai sensi e per gli effetti dell’articolo 2135 del Codice civile, e della pesca;
- b) i rifiuti prodotti dalle attività di costruzione e demolizione, nonché i rifiuti che derivano dalle attività di scavo, fermo restando quanto disposto dall’articolo 184-bis;
- c) i rifiuti prodotti nell’ambito delle lavorazioni industriali se diversi da quelli di cui al comma 2;
- d) i rifiuti prodotti nell’ambito delle lavorazioni artigianali se diversi da quelli di cui al comma 2;
- e) i rifiuti prodotti nell’ambito delle attività commerciali se diversi da quelli di cui al comma 2;
- f) i rifiuti prodotti nell’ambito delle attività di servizio se diversi da quelli di cui al comma 2;
- g) i rifiuti derivanti dall’attività di recupero e smaltimento di rifiuti, i fanghi prodotti dalla potabilizzazione e da altri trattamenti delle acque e dalla depurazione delle acque reflue, nonché i rifiuti da abbattimento di fumi, dalle fosse settiche e dalle reti fognarie;
- h) i rifiuti derivanti da attività sanitarie se diversi da quelli all’articolo 183, comma 1, lettera b-ter);
- i) i veicoli fuori uso.»;
Le attività artigianali di falegnameria, benché siano attività di lavorazione/produzione, non rientrano nei rifiuti speciali, non essendo industriali, bensì rientrano nei rifiuti simili del comma 2 dell’art. 183.
L’eventuale esenzione superficiaria deve essere valutata ai sensi del coma 649 dell’art. 1 della Legge 147/2013, nel caso in cui l’attività economica dimostri di produrre rifiuti che non rientrano nella tabella dell’allegato L quater
- Nella determinazione della superficie assoggettabile alla TARI non si tiene conto di quella parte di essa ove si formano, in via continuativa e prevalente, rifiuti speciali, al cui smaltimento sono tenuti a provvedere a proprie spese i relativi produttori, a condizione che ne dimostrino l’avvenuto trattamento in conformità alla normativa vigente.(…)
In tal caso, l’esclusione della parte di superficie produttiva di rifiuti speciali deve essere indicata nella dichiarazione TARI presentata dal contribuente. In tal senso la Cassazione, con ordinanza 25435/2023, nel pronunciarsi sul precedente prelievo TARSU ha confermato la condizione dell’obbligo dichiarativo e l’importanza del medesimo. Se la parte non assolve all’onere di preventiva informazione, la relativa circostanza non può essere fatta valere nel giudizio di impugnazione dell’atto impositivo. La denuncia (o variazione) assolve infatti alla finalità di portare a conoscenza dell’ente impositore quali sono i locali occupati o detenuti e quelli per i quali sussistono i requisiti della esenzione, così da consentire all’ente di avere un quadro completo della produzione di rifiuti sul territorio, del soggetto responsabile, e di avviare gli opportuni controlli nonché di organizzare la gestione del servizio; al tempo stesso essa integra la dichiarazione della volontà di avvalersi del beneficio per i locali indicati come superficie non tassabile. Per queste ragioni, la sua carenza non è emendabile se non per il futuro, e cioè con riferimento agli anni di imposta non ancora scaduti, tramite la presentazione della denuncia o della variazione.
Più recentemente, la Suprema Corte, con l’ordinanza 8846/2025, conferma l’obbligo dichiarativo per ottenere l’esenzione dal tributo TARI sulle superfici di produzione dei rifiuti speciali, con onere dimostrativo a carico del richiedente. Le deroghe alla tassazione quanto le riduzioni delle superfici e tariffarie non operano in via automatica, in base alla mera sussistenza delle previste situazioni di fatto, dovendo, invece, i relativi presupposti essere di volta in volta dedotti nella denuncia originaria o in quella di variazione.
Pertanto, nel caso indicato nel quesito, l’eventuale presenza di aree destinate all’esclusiva e prevalente produzione di rifiuti speciali darà diritto all’esenzione dalla tassazione solamente dalla presentazione della dichiarazione, senza poter assumere alcun effetto retroattivo.
Inoltre, va ricordato che, con la sentenza n. 23228/2024, la Cassazione conferma la debenza della quota fissa della Tari, sempre dovuta sia per i rifiuti urbani sia per gli speciali. La pronuncia, ampiamente argomentata, chiarisce come la Legge 147/2013 non abbia previsto, in modo chiaro ed espresso, l’imponibilità solo dei locali e delle aree produttive di rifiuti conferibili al servizio pubblico; diversamente, nel fare questo, avrebbe anche dovuto prevedere in che modo garantire la copertura di quei servizi indivisibili pur compresi nella gestione dei rifiuti, senza pregiudicare, in modo ingiustificato ed eccessivo, gli utenti domestici.
Nella sentenza si richiamano le conclusioni della Cass. n. 13455/2024 che ha affermato il seguente principio di diritto: “alla luce del disposto di cui all’art. 1, comma 649, legge n. 147/2013, il quale prevede che nella determinazione delle superfici assoggettabili alla TARI non si tenga conto di quelle ove si formano i rifiuti speciali ed in forza del successivo comma 651 del medesimo articolo – che richiama il D.P.R. 27.4.1999 n. 158 (“Regolamento recante norme per la elaborazione del metodo normalizzato per definire la tariffa del servizio di gestione del ciclo dei rifiuti urbani”, tutt’ora in vigore) in base al quale risulta che la tassa in questione è doppiamente strutturata in una parte variabile ed in una parte fissa – allorquando il contribuente provi di produrre esclusivamente rifiuti speciali non assimilabili o, comunque, non assimilati e smaltiti autonomamente a mezzo di ditte esterne autorizzate, lo stesso è sempre tenuto a corrispondere, per intero, la quota fissa sulla base del mero presupposto del possesso o detenzione di superfici nel territorio comunale astrattamente idonee alla produzione di rifiuti, in quanto potenzialmente idonee ad ospitare attività antropiche inquinanti ed a costituire un carico per il gestore del servizio, essendo destinata detta quota a finanziare i costi essenziali e generali di investimento e del servizio nell’interesse dell’intera collettività e, dunque, indipendentemente dalla qualità e quantità dei rifiuti prodotti, così come dall’oggettiva fruizione del dell’intera collettività e, dunque, indipendentemente dalla qualità e quantità dei rifiuti prodotti, così come dall’oggettiva fruizione del servizio comunale, purché effettivamente apprestato e messo a disposizione della collettività”.
Concludendo, l’ente potrà riconoscere l’esenzione dalla quota variabile (qualora si ritenga di applicare le indicazioni delle citate sentenze sulla questione della quota fissa) per la zona di produzione di rifiuti speciali, se continuativa e prevalente, dalla data di presentazione della dichiarazione dell’utente, non essendo possibile riconoscere la retroattività. Se invece la produzione di rifiuti speciali risulta contestuale ai rifiuti urbani, è preferibile l’applicazione della percentuale di abbattimento indicata nel regolamento (sempre che presenti tale disposizione facoltativa ai sensi della L. 147/2013).
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15 luglio 2025 | Fonte: https://ntplusentilocaliedilizia.ilsole24ore.com
Cosap dovuta anche se non c’è l’atto di concessione del suolo pubblico
Quando ci sia un’occupazione di fatto del suolo pubblico è irrilevante la mancanza di un provvedimento concessorio formale.
Il canone per l’occupazione di suolo pubblico si configura quale corrispettivo a fronte di una concessione dell’uso esclusivo o speciale di beni pubblici ed è dovuto in rapporto all’utilizzazione particolare o eccezionale che ne trae il soggetto interessato. Per quanto il diritto alla riscossione del canone trovi la sua fonte nel provvedimento concessorio, l’obbligazione di corrispondere il canone non sorge dall’atto di accertamento, bensì con l’occupazione del demanio pubblico, con o senza titolo. Da ciò consegue che:
- a) quando ci sia un’occupazione di fatto del suolo pubblico è irrilevante la mancanza di un provvedimento concessorio formale;
- b) l’eventuale ritardo dell’ente pubblico nel conteggio della somma dovuta può comportare un legittimo affidamento del privato nella non debenza del pagamento;
- c) il diritto al canone e la sua determinazione non possono essere oggetto di rinuncia da parte dell’ente.
Questi i principi di diritto affermati dalla Cassazione, Sezione I, con l’ordinanza n. 17182/2025.
Il fatto
Nell’anno 2001 il Comune di Milano aveva accolto l’istanza di una società commerciale per esporre alcuni impianti pubblicitari in alcune zone del territorio urbano, omettendo però di chiedere il canone di occupazione del suolo pubblico contestualmente al rilascio dell’autorizzazione. Dopo un silenzio protrattosi per vari anni, l’ente locale emetteva 3 avvisi di pagamento della Cosap con effetto retroattivo per oltre 370 mila euro, ma la società si rifiutava di pagare e si rivolgeva al Tribunale di Milano lamentando che il Comune, a seguito della mancata indicazione nel canone nel provvedimento di concessione, aveva implicitamente rinunciato al canone. Ad avviso della parte attrice il comportamento dell’ente non solo era stato contrario ai principi di correttezza e buona fede, ma aveva anche ingenerato il suo ragionevole affidamento nella non debenza del canone. Il Tribunale accoglieva il ricorso e annullava gli avvisi di pagamento a carico della società, ma la Corte d’appello di Milano con la sentenza n. 2649/2016 emetteva un verdetto di segno opposto.
L’inerzia dell’ente
La Cassazione ha confermato quest’ultima sentenza, ritenendo che la mancata indicazione dell’ammontare della Cosap nel provvedimento di concessione costituiva una mera irregolarità, ma non equivaleva a una rinuncia alla riscossione del canone, che dà luogo a un diritto indisponibile della Pa.
La Sezione ha osservato che «una pur deplorevole inerzia del Comune nell’esazione del canone non rileva, se non protratta oltre i termini di prescrizione del credito» che, nel caso di specie, ha durata decennale.
Non rilevando, per quanto detto all’inizio, né l’omessa determinazione del canone nel provvedimento concessorio, né la mancanza del provvedimento stesso, ad avviso giudici non è ipotizzabile una rinunzia al credito per facta concludentia, essendo oltretutto richiesta in tal caso per la Pa la forma scritta.
Per quanto sopra il collegio ha sancito che non è meritevole di tutela l’affidamento riposto dalla società nella non debenza del canone, dato che non è affatto imprevedibile, fino al momento del maturare della prescrizione, il sopraggiungere di una richiesta di pagamento della Cosap, ancorché intempestiva, da parte del Comune.
15 luglio 2025 | Fonte: https://smart24tributilocali.ilsole24ore.com
Le aree sottoposte a bonifica versano IMU
Nel caso trattato dalla CGT, sentenza n.300/2025 la ricorrente sostiene che le aree sottoposte a bonifica non hanno la possibilità di realizzare alcun intervento residenziale, e pertanto il loro valore sarebbe nullo, con conseguente illegittimità dell’imposizione Imu e del relativo avviso di accertamento in discussione in questa sede.
La CGT ritiene la tesi non convincente per diversi motivi.
In primo luogo, l’impossibilità di realizzare su dette aree attività edificatoria non è vera in astratto perché le delibere regionali che impedirebbero l’edificabilità (Delibera Giunta Regione Abruzzo n. 137 del 3 marzo 2014 e n. 764 del 22 novembre 2016) in realtà parlano esclusivamente di un rischio potenziale che ben può essere superato prendendo appositi accorgimenti, e che pertanto non esclude l’edificabilità ma a tutto voler concedere la riduce (profilo questo che però non appare dedotto nel presente giudizio, dove si parla sempre di inedificabilità con azzeramento del valore).
Merita inoltre di essere richiamata la disposizione di cui all’art. 34, comma settimo, del D.L. 133/2014, convertito con modificazioni nella legge 164/2014, la quale prevede che “Nei siti inquinati, nei quali sono in corso o non sono ancora avviate attività di messa in sicurezza e di bonifica, possono essere realizzati interventi e opere richiesti dalla normativa sulla sicurezza nei luoghi di lavoro, di manutenzione ordinaria e straordinaria di impianti e infrastrutture…”;
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15 luglio 2025 | Fonte: https://smart24tributilocali.ilsole24ore.com
L’accatastamento unitario non basta per la qualifica di pertinenza di un terreno
Per rendere pertinenza un’area edificabile (ritenuta tale dal piano regolatore, come nel caso in giudizio, circostanza non contestata) è necessario che intervenga un’oggettiva e funzionale modificazione dello stato dei luoghi che sterilizzi in concreto e stabilmente lo ius edificandi e non sia possibile una destinazione diversa senza una radicale trasformazione del bene.
(Corte di Cassazione n. 18372/2025)
Per la ricorrente, invece, il terreno risulta accatastato unitariamente al fabbricato e il valore del terreno sarebbe incorporato nella relativa rendita catastale (unitariamente per la costruzione e per il terreno).
Secondo la Corte, la pertinenzialità di un terreno ad un fabbricato non deriva dalla considerazione unitaria nel catasto, ma dalla oggettiva situazione degli immobili, che nel caso è stata ritenuta non idonea a far qualificare il terreno pertinenza dell’opificio (vedi Cass. Sez. 5, ordinanza n. 4455 del 20 febbraio 2024).
In tal caso non si ha una doppia imposizione, che si verifica soltanto nell’ipotesi di due avvisi di accertamento che assoggettino a tassazione il medesimo presupposto (Cass., Sez. 5, ordinanza n. 27625 del 30/10/2018 (Rv. 651079 – 01) e Cass., Sez. VI-5, ordinanza n. 13503 del 29/05/2018 (Rv. 648690 – 01).
Nel caso che occupa non ricorre la dedotta duplice tassazione, avendo il Comune esercitato il potere impositivo solo con gli avvisi impugnati. Lo stesso rilievo della contribuente circa la consistenza catastale del bene (inclusiva delle menzionate aree scoperte nella misura di “quasi il 30%” della complessiva consistenza) dà, peraltro, conto di una considerazione non solo forfettaria dell’area, ma soprattutto basata su di un presupposto (la natura pertinenziale) diverso da quello (area scoperta fabbricabile) posto a base della tassazione dal Comune, il che vale ad escludere, per quanto sopra detto, che sul punto possa ipotizzarsi, sul versante giuridico, una doppia imposizione.
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15 luglio 2025 | Fonte: https://smart24tributilocali.ilsole24ore.com
Immobili F7 destinati a centrale telefonica. L’esenzione necessita di idoneo accatastamento
L’immobile oggetto di contenzioso è destinato a Centrale Telefonica di Telecom Italia S.p.A, come da nuovo accatastamento presentato nel 2023 avente, a detta del ricorrente, efficacia retroattiva. (CGT BOLOGNA n.367/2025)
La CGT Bologna conferma invece che l’iscrizione nel catasto edilizio è fattore sufficiente per l’assoggettamento dell’immobile all’imposta di cui si tratta (Cass. 3 maggio 2019 n. 11646), così che il beneficio fiscale invocato dalla ricorrente non può essere riconosciuto in assenza di un’oggettiva classificazione catastale che lo giustifichi e consenta di usufruirne.
La Corte osserva che l’IMU è imposta avente natura “reale”, il cui presupposto è integrato dal possesso del fabbricato indipendentemente dalla sua capacità di produrre reddito; e che l’iscrizione in catasto dell’immobile, anche quando esso sia in corso di costruzione, determina essa stessa la realizzazione del presupposto impositivo.
L’obbligo dichiarativo è una condizione necessaria per l’ottenimento del beneficio fiscale e, dunque, l’omessa presentazione della dichiarazione di variazione catastale comporta – in linea generale – la non spettanza del beneficio (cfr. Cass. 23 maggio 2024 n. 14518; Cass. 8 aprile 2024 n. 9364; Cass. 12 aprile 2019 n. 10283).
Nel caso di specie, la tardiva variazione catastale (peraltro priva di efficacia retroattiva) non poteva quindi condurre al rimborso dell’IMU versata in conformità con le oggettive risultanze di catasto e, pertanto, l’atto impugnato deve ritenersi legittimo.
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15 luglio 2025 | Fonte: https://smart24tributilocali.ilsole24ore.com
Trattamento contabile delle componenti perequative TARI da riversare a cassa servizi energetici e ambientale per la gestione dei rifiuti raccolti in mare
La sezione autonomie della Corte dei Conti, sezione delle autonomie, deliberazione n. 13/SEZAUT/2025/QMIG, si pronuncia in ordine a due quesiti relativi alle componenti perequative UR1 e UR2, da applicare sulla TARI, a seguito della decisione della sezione controllo delle Marche di rimettere la questione, in riscontro dei pareri discordanti all’interno delle sezioni controllo della medesima Corte. La sezione Marche ha presentato i seguenti quesiti:
1.se è legittimo considerare il valore incassato, anziché quello accertato, a titolo di componenti perequative TARI per ciascuna utenza quale somma complessiva da riversare a CSEA scongiurando così la circostanza in cui il Comune si troverebbe ad anticipare, sia in termini di competenza che in termini di cassa, somme in favore di CSEA senza avere la certezza dell’integrale copertura delle stesse in considerazione dell’incidenza della dubbia esigibilità di una quota parte delle entrate richieste ai fini TARI e delle possibili variazioni diminutive dei valori “bollettati’ e quindi accertati, per effetto delle variazioni che potrebbero essere dichiarate da parte dei contribuenti (come consentito dal Legislatore) fino al 30 giugno dell’anno successivo a quello dell’emissione dei titoli di incasso TARI, quindi successivamente al termine del 15 marzo per il versamento a CSEA da parte dei comuni;
2.se, anche in conseguenza del criterio di contabilizzazione sopra esposto, l’imputazione delle somme registrate in entrata del bilancio comunale e derivanti dall’applicazione delle componenti perequative TARI debba avvenire tra le entrate di parte corrente del titolo terzo oppure tra le entrate in partite di giro sebbene, in questa ultima ipotesi, non trovando esatta corrispondenza tra entrata e spesa, in quanto il Comune si troverebbe ad impegnare e pagare in spesa una somma che potrebbe, seppur per una quota minima, non trovare mai opportuna copertura tra le scritture di cassa in entrata corrispondenti.
La Sezione ricostruisce la disciplina delle componenti perequative evidenziando che il Comune è soggetto, attivo o passivo, di tre diverse obbligazioni civili.
In primo luogo, è titolare di un credito verso l’utente, tenuto a versare la componente perequativa al Comune, in base ad un’obbligazione la cui natura civilistica è stata di recente affermata dalle Sezioni Unite della Corte di cassazione, con la sentenza n. 35282 del 18 dicembre 2023. Sebbene la sentenza in parola si riferisca agli “oneri di sistema” del mercato energetico, infatti, appare del tutto evidente la similitudine con le componenti perequative, che svolgono analoga funzione nel mercato della raccolta dei rifiuti. Tale obbligazione deve trovare adeguata rappresentazione in bilancio. Di conseguenza, poiché la componente perequativa, come sopra evidenziato, è dovuta nell’“anno a” direttamente dal cittadino al Comune, e non spetta immediatamente a CSEA, verso cui, invece, sussiste un obbligo di versamento che sorge solo un anno dopo, all’esito della gestione della tariffa e che può essere compensato dal diritto al rimborso.
L’obbligazione del cittadino deve essere rappresentata, di conseguenza, nel lato entrate del bilancio dell’ente territoriale, in modo speculare a quanto si fa per la TARI. Il legislatore non ha inteso istituire una entrata autonoma, ma soltanto una componente fiscale che si “aggiunge” alla TARI stessa. Pertanto, appare corretta l’affermazione che il trattamento contabile da applicare alla componente perequativa si deve determinare per assimilazione e accessorietà, come sostenuto dalla Sezione di controllo per la Lombardia. Allo stesso tempo, va tenuto conto che il principio di trasparenza affermato dalla legge e la regola della distinzione espositiva introdotta dalle deliberazioni ARERA, combinandosi con il principio generale della rendicontabilità, impongono una specifica contabilità analitica che consenta una esposizione “separata”, distinguendo tra componente aggiuntiva e TARI stessa.
In definitiva, il credito verso l’utenza per la componente aggiuntiva, da un lato, va rappresentato “come” la TARI, e allo stesso tempo va esposto separatamente. Esso, di conseguenza, va accertato tra le entrate di parte corrente del titolo III, seguendo la classificazione fornita dall’Allegato 13/1 al d.lgs. n. 118/2011 (art. 15, comma 2); tuttavia va accertato attraverso una posta separata dalla TARI.
Per altro verso, per quanto riguarda il criterio di imputazione, in assenza di speciali indicazioni dei principi contabili applicati, al credito per la componente aggiuntiva verso gli utenti, come per la TARI, deve applicarsi, il criterio della competenza finanziaria potenziata. Il credito, cioè, deve essere accertato in base alla sua “esigibilità” e non per cassa. Di conseguenza (evocando la terminologia della deliberazione ARERA, Allegato A, art. 6) esso va rilevato in bilancio nell’anno “a” in cui matura il credito, in quanto esso sorga privo di termini o condizioni (§2, All. 4/2, d.lgs. n. 118/2011).
In secondo luogo, deve essere rappresentata in bilancio l’eventuale obbligazione civile per il pagamento dei servizi a “imprese di settore” (art. 7, comma 9, d.lgs. n. 197/2021) che hanno provveduto o fornito i mezzi per la raccolta ed il trattamento di rifiuti accidentalmente pescati, volontariamente raccolti (o per la gestione dei rifiuti in caso di eventi eccezionali e calamitosi), trattandosi di una obbligazione verso terzi per prestazioni ricevute nell’esercizio di funzioni proprie dei Comuni
Infine, ed in terzo luogo, va rappresentata l’obbligazione di riversamento/rimborso, che sorge ed è imputabile in bilancio, però, solo successivamente. Tale debito o credito va prima quantificato in base ai criteri determinati dalla normativa sostanziale vigente contenuta nella deliberazione ARERA e nelle disposizioni interne di funzionamento di CSEA. Successivamente, dal punto di vista contabile, la posta va incanalata in una contabilità analitica separata, che consenta la comunicazione dei dati a CSEA. Infatti, come sopra evidenziato, tale obbligazione sorge e si dipana in una relazione diretta tra il Comune e CSEA e presuppone una ordinata contabilità allo scopo di determinare, nell’anno “a+1”, il segno e la quantità dell’obbligazione (non soltanto in ragione delle entrate, ma anche dei costi per le prestazioni effettuate).
Sulla base di queste premesse, occorre dichiarare l’inammissibilità del primo quesito: la funzione consultiva «non può in alcun modo interferire e, meno che mai, sovrapporsi a quella degli [altri] organi giudiziari» competenti. Pertanto, il criterio del quantum debeatur (criterio dell’accertato o della cassa) dell’obbligazione di riversamento attenendo una questione di diritto sostanziale che si colloca a monte della rappresentazione contabile, essa deve essere risolta, in via normativa ed applicativa, da ARERA e CSEA, le cui determinazioni possono diventare oggetto di contesa giudiziaria potenzialmente dinanzi a giudici diversi dalla Corte dei conti.
Il secondo quesito deve essere risolto nel senso che non è possibile un’imputazione in conto terzi degli accertamenti per le componenti perequative e della spesa di riversamento, con conseguente necessità dell’Ente di vigilare costantemente sulla copertura della spesa, cui la componente perequativa è destinata, e sugli equilibri prospettici connessi.
Il Comune non è esecutore di spesa per conto di CSEA, ma deve adempiere ad un onere proprio il cui costo, tuttavia, viene successivamente rimborsato sulla base di un meccanismo solidaristico che presuppone una contabilità analitica e la rendicontazione separata di risorse ed impieghi utilizzati e sostenuti. Attraverso questa contabilità è possibile ottenere un rimborso nell’anno “a+1”, fermo restando il dovere del Comune di provvedere alle spese con il proprio bilancio, nell’anno “a”.
Le conclusioni della Corte dei Conti Sezione Autonomie:
La Sezione delle autonomie della Corte dei conti, pronunciandosi sulla questione di massima posta dalla Sezione regionale di controllo per le Marche con deliberazione n. 49/2025/QMIG, enuncia i seguenti principi di diritto:
- «il quesito sul criterio di quantificazione dell’obbligo di riversamento a CSEA (per cassa per competenza) è inammissibile in quanto incide sulla determinazione del quantum debeatur dell’obbligazione di riversamento, presupposta rispetto alla rappresentazione contabile e suscettibile di generare contenziosi di competenza di altre magistrature;
- le somme derivanti dalle componenti perequative TARI vanno imputate nel bilancio comunale tra le entrate di parte corrente; l’obbligo di riversamento, in quanto obbligazione propria del Comune, non costituisce una partita in conto terzi e deve essere regolato a carico della parte corrente del bilancio».
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16 luglio 2025 | Fonte: https://ntplusentilocaliedilizia.ilsole24ore.com
Le nuove sanzioni tributarie stabilite dal Dlgs 87/2024 non sono retroattive
Le minori sanzioni previste dal Dlgs 87/2024, di riforma delle sanzioni amministrative tributarie attuativo della legge delega fiscale legge 111/2023, non si applicano alle violazioni commesse prima del 1° settembre 2024, in deroga ai principi del favor rei e della lex mitior (sanzione più favorevole).
La Corte di cassazione, con la sentenza n. 17113 del 25/06/2025, ha sposato la tesi relativa all’irretroattività delle nuove misure sanzionatorie sancito dall’articolo 5 del Dlgs 87/2024 e dalla relazione illustrativa del decreto.
Come accennato, l’articolo 5 del citato Dlgs 87/2024 ha stabilito che le disposizioni contenute negli articoli 2, 3 (ad esclusione del comma 1, della lettera o) e 4 del medesimo decreto si applicano solo alle violazioni commesse dal 1° settembre 2024. Così operando la norma ha sancito una deroga al principio del “favor rei”, contenuto nell’articolo 3, comma 2, del Dlgs 472/1997 (articolo 2 del Dlgs 133/2024 dal 2026), in base al quale: «salvo diversa previsione di legge, nessuno può essere assoggettato a sanzioni per un fatto che, secondo una legge posteriore, non costituisce violazione punibile» ed a quello della lex mitior, di cui al comma 3 del medesimo articolo, ove si stabilisce che: «Se la legge in vigore al momento in cui è stata commessa la violazione e le leggi posteriori stabiliscono sanzioni di entità diversa, si applica la legge più favorevole, salvo che il provvedimento di irrogazione sia divenuto definitivo».
Tale deroga è stata fortemente discussa, in quanto diversi commentatori ritenevano che questa previsione fosse illegittima, in quanto contrastante con il principio costituzionale stabilito in materia di sanzioni penali. Tuttavia, accanto alla chiara previsione normativa, che opera una precisa definizione del momento di decorrenza delle nuove sanzioni, derogando ai principi anzidetti, la relazione di accompagnamento al decreto legislativo aveva già evidenziato la portata non retroattiva delle nuove misure sanzionatorie.
La Corte di cassazione, ha sposato quest’ultima tesi, evidenziando che la scelta del legislatore non è in contrasto né con i principi costituzionali, né con il diritto dell’Unione europea. In particolare, la circostanza che la riforma delle sanzioni si innesti del più ampio quadro di riforma del sistema sanzionatorio, consente di ritenere la deroga al principio della lex mitior coerente con i principi costituzionali e sovranazionali. La relazione illustrativa al decreto ha evidenziato che la riforma tributaria è impostata su di un nuovo rapporto tra amministrazione finanziaria e contribuente, basato sull’ottenimento della compliance preventiva del contribuente, a cui è corrisposto, proprio in virtù di quanto nuovo rapporto di fiducia, l’abbassamento delle sanzioni. Sotto tale profilo è apparso necessario un allineamento temporale tra la piena attuazione dei nuovi istituiti di compliance e l’entrata in vigore delle nuove misure sanzionatorie.
La Corte di cassazione ha inoltre sottolineato come non hanno ragione di essere le contestazioni mosse circa lo scostamento che l’entrata in vigore delle misure sanzionatorie solo pro futuro comporterebbe rispetto a quanto accade nelle violazioni penali, nelle quali invece il principio del favor rei e della lex mitior non è derogabile. Tuttavia, la Corte europea dei diritti dell’uomo ha ritenuto che, poichè le sanzioni penali differiscono dalle sanzioni amministrative tributarie, è giustificato uno scostamento dal loro maggiore rigore. La riprova si ha con la previsione del comma 2 dell’articolo 3 del Dlgs 472/1997, il quale ha previsto che il principio del favor rei per le sanzioni tributarie possa essere derogato da una previsione di legge; a maggior ragione, per la Corte questa deroga è ammissibile per il principio della lex mitior (comma 3) in quanto, pur non prevedendo la norma in questo caso la possibilità di una deroga legislativa, sarebbe del tutto irragionevole consentire la deroga al principio della irretroattività della sanzione quando una fattispecie non costituisce più una violazione e non ammetterla invece quando una fattispecie resta sanzionata, seppure con una intensità minore. Quanto sopra è coperto dalla Corte costituzionale, che nella sentenza n. 68/2021 aveva sancito che: «la Corte ha affermato che, laddove la sanzione amministrativa abbia natura punitiva, di regola non vi sarà ragione per continuare ad applicarla, qualora il fatto sia successivamente considerato non più illecito; né per continuare ad applicarla in una misura considerata ormai eccessiva (e per ciò stesso sproporzionata) rispetto al mutato apprezzamento della gravità dell’illecito da parte dell’ordinamento: ciò, salvo che sussistano ragioni cogenti di tutela di controinteressi di rango costituzionale, tali da resistere al medesimo vaglio positivo di ragionevolezza, alla cui stregua debbono essere in linea generale valutate le deroghe al principio di retroattività». Analogamente si può fare riferimento alla sentenza n. 63/2019. In sostanza, per la Corte, la deroga al principio del favore rei o della lex mitior è giustificato allorquando ci siano esigenze di tutela di altri interessi costituzionali, pari o superiori a quelli tutelati dai suddetti principi.
La Corte Costituzionale, con la sentenza n. 193/2016, ha infatti chiarito che «la costante giurisprudenza di questa Corte ha affermato che in materia di sanzioni amministrative non è dato rinvenire un vincolo costituzionale nel senso dell’applicazione in ogni caso della legge successiva più favorevole, rientrando nella discrezionalità del legislatore nel rispetto del limite della ragionevolezza modulare le proprie determinazioni secondo criteri di maggiore o minore rigore in base alle materie oggetto di disciplina».
La Cassazione evidenzia quindi che: «È sufficiente la lettura dell’articolo 20 della legge delega, e degli ampi obiettivi che con essa sono stati assunti dal legislatore, per comprendere come la riforma non si limita a rideterminare le sanzioni in senso favorevole al contribuente, ma si accompagna a un ripensamento del ruolo stesso della sanzione, implementando un contesto di collaborazione tra Amministrazione e contribuente (articolo 20, comma 1, lettera a, n. 4), e persino prevedendo forme di compensazione tra sanzioni comminate e crediti maturati nei confronti delle amministrazioni (articolo 20, comma 1, lettera a, n. 2), oppure valorizzando la condotta successiva o pregressa del contribuente in uno spirito radicalmente rivoluzionato rispetto al passato, quanto meno in termini di obiettivi (articolo 20, comma 1, lettera 2 e 3). Un simile riassetto giustifica la scelta del legislatore delegato». La previsione di sanzioni più leggere, connesse alla più ampia riforma del sistema tributario, con conseguente diminuzione di gettito già preventivato, oltre a far emerge esigenze di tutela del principio costituzionale del pareggio di bilancio (articolo 97 della Costituzione), riversa i suoi effetti anche sul raggiungimento di prestazioni standard anche esse di rango costituzionale (prestazioni sanitarie, istruzione, sicurezza, ecc.). Una riforma del sistema tributario, nel quale la revisione del carico sanzionatorio si relaziona con un diverso rapporto tra fisco e contribuente, giustifica l’irretroattività delle sanzioni. Peraltro, è del tutto evidente che il legislatore delegato ha ponderato con attenzione tale deroga, considerando che l’entrata in vigore delle nuove sanzioni non è allineata con l’entrata in vigore del decreto, ma è differita ad un momento successivo (1° settembre 2024).
L’irretroattività delle nuove sanzioni è stata confermata, oltre che dalla citata relazione illustrativa al decreto, anche dalla sentenza della Cassazione n. 1274/2025 che, ha affermato che la deroga al principio del favor rei può essere giustificata da esigenze erariali.
Anche se, al contrario della sentenza n. 17113/2025, la quale ha ritenuto manifestamente infondata l’eccezione di illegittimità costituzionale, la pronuncia n. 2950/2025 della Corte ha rimesso la questione alla Corte costituzionale, sollecitando un vaglio di costituzionalità del regime transitorio stabilito dall’articolo 5 del Dlgs n.87/2024, che preclude l’applicazione delle nuove disposizioni agli illeciti anteriori al 1° settembre 2024.
17 luglio 2025 | Fonte: https://ntplusfisco.ilsole24ore.com
Sport dilettanti, esenzione Imu più ampia
Rivisti i criteri per gli immobili utilizzati da enti non commerciali per lo svolgimento di attività sportive esclusivamente con modalità senza finalità di lucro
Impianti sportivi, sull’esenzione Imu approvato un emendamento a maglie larghe. Resta il nodo sull’applicabilità alle società sportive. È stato approvato in commissione Finanze alla Camera un correttivo al decreto fiscale (Dl 84/2025) che interviene sui requisiti di accesso al regime di esenzione Imu in ambito sportivo. Vale a dire quella che scatta a condizione che gli immobili siano utilizzati da enti non commerciali per lo svolgimento di attività sportive esclusivamente con modalità non commerciali. Un regime, dunque, che presuppone, da un lato, la natura fiscale non commerciale dell’ente e, dall’altro, che le attività sportive siano svolte a titolo gratuito o a fronte di un corrispettivo simbolico e, comunque, non superiore alla metà dei corrispettivi medi previsti per analoghe attività svolte con modalità concorrenziali nello stesso ambito territoriale. Proprio in questo quadro normativo si inseriscono le due previsioni recate dall’emendamento. Attribuendo anzitutto ai Comuni il compito di individuare annualmente i corrispettivi medi, dandone pubblicità in apposito elenco. Una misura questa condivisibile nell’ottica di perimetrare l’ambito applicativo in linea con le indicazioni normative.
Profili di criticità emergono invece con riguardo all’ulteriore previsione. In attesa dell’attuazione delle disposizioni dai Comuni si conferma l’esenzione nei confronti di associazioni e società sportive dilettantistiche (Asd e Ssd), in ragione della sola iscrizione al relativo registro sportivo. Con una formulazione che sembrerebbe dunque prescindere dalla sussistenza del presupposto oggettivo (i.e. svolgimento di attività sportive non commerciali) da parte degli enti. Senza peraltro contare il corto circuito della norma che estende l’agevolazione anche alle Ssd che, per loro natura, sono enti commerciali ancorché senza scopo di lucro. Aspetti, questi, che generano perplessità anche per i rinvii normativi citati, ormai superati dalla riforma sport rispetto alla quale occorrerebbe un coordinamento.
18 luglio 2025 | Fonte: https://ntplusfisco.ilsole24ore.com
Ici, l’esenzione spetta anche se la famiglia non dimora
Illegittima la condizione di convivenza di tutto il nucleo familiare
È illegittima la previsione di esenzione da Ici dell’abitazione principale, nella parte in cui condiziona l’esonero alla dimora dell’intero nucleo familiare nell’unità abitativa. Con la sentenza 112/2025, depositata il 18 luglio, la Corte costituzionale completa il percorso già avviato con la sentenza 209/2022, che ha dichiarato l’incostituzionalità dell’omologa norma dell’Imu. La pronuncia odierna è destinata a operare sui contenziosi pendenti, considerato che l’Ici è stata abolita già a partire dal 2012.
La sentenza prende le mosse da un’ordinanza di remissione della Cassazione che ha constatato come la precedente declaratoria di illegittimità non fosse stata estesa all’Ici. Quest’ultima, peraltro, in punto di esenzione dell’abitazione principale, si differenzia in parte da quella dell’Imu. Mentre per quest’ultima, infatti, occorre che il proprietario risieda anagraficamente e dimori abitualmente nella casa, nell’Ici, rileva la dimora abituale. Dopo le modifiche apportate a valere dal 1° gennaio 2007, inoltre, si è introdotto il riferimento alla residenza anagrafica con funzione di presunzione legale relativa. In altri termini, si è stabilito che l’esenzione in esame trovi applicazione per l’unità immobiliare ove il contribuente ha la residenza anagrafica, fatta salva la possibilità di provare che nell’immobile interessato il proprietario, seppur non residente, ha la dimora abituale.
Il punto critico della nozione legislativa è, tuttavia, rappresentato dal fatto che il requisito della dimora abituale deve essere presente tanto in capo al soggetto passivo che in capo al suo nucleo familiare. Ne derivava, secondo il costante orientamento della Suprema Corte, puntualmente richiamato dalla Consulta, che qualora uno dei due coniugi non dimorasse unitamente al proprietario dell’abitazione, l’esenzione non sarebbe spettata per nessuna delle due unità utilizzate.
Questa situazione è però stata già dichiarata incostituzionale nella sopra richiamata sentenza 209/2022, in materia di Imu, sostanzialmente per le medesime ragioni oggi riprese nella pronuncia sull’Ici.
Viene in particolare ricordato che anche l’Ici è un’imposta reale che, in quanto tale, valorizza la situazione del fabbricato, senza che rilevino, in linea di principio, le condizioni soggettive dei familiari del proprietario. In tale contesto normativo, pertanto, far dipendere l’applicazione di un’agevolazione dalla coabitazione dei familiari determina delle distorsioni nell’applicazione del principio di capacità contributiva. A ciò si aggiunga che è sempre più frequente il caso in cui due coniugi decidono di vivere separatamente, per le ragioni più disparate, per poi magari ricongiungersi nel fine settimana. L’interpretazione del diritto vivente, dunque, si rivela per di più del tutto anti storica, perché presuppone una realtà quotidiana ampiamente superata nei fatti.
Ribadisce ancora la Corte Costituzionale che la lettura contrastata si risolve anche in una ingiustificata disparità di trattamento a tutto svantaggio delle coppie sposate, rispetto alle coppie di fatto, per le quali invece non opera alcun divieto di duplicazione dell’esenzione dal tributo locale. Ciò in contrasto, tra l’altro, con gli articoli 29 e 31 della Costituzione che sanciscono il principio della promozione della famiglia.
21 luglio 2025 | Fonte: https://ntplusfisco.ilsole24ore.com
Coltivatori diretti, decisivo il legame con il fondo agricolo
Lo Iap può invece gestire il terreno senza lavorarlo. I riflessi sull’esenzione Imu
La Cassazione è tornata sulla distinzione tra coltivatori diretti e imprenditori agricoli professionali (Iap), ai fini dell’applicazione dell’agevolazione Imu di cui all’articolo 2 del Dlgs 504 del 1992 (ordinanza 14915/2025).
Questa norma prevede che si considerino non fabbricabili e quindi non soggetti a Imu, i terreni posseduti da coltivatori diretti e imprenditori agricoli professionali sui quali persiste l’utilizzazione agro-silvo-pastorale mediante l’esercizio di attività dirette alla coltivazione del fondo, alla silvicoltura, alla funghicoltura e all’allevamento di animali. La Corte di giustizia tributaria di secondo grado aveva escluso l’applicabilità di tale agevolazione in capo al contribuente, in quanto non qualificato Iap, ignorando il fatto che quest’ultimo aveva sempre invocato di possedere la diversa qualifica di coltivatore diretto.
In merito, la Suprema corte ha ribadito che le figure di imprenditore agricolo professionale e di coltivatore diretto sono due figure autonome che hanno caratteristiche e presupposti propri. Queste ultime, infatti, seppur riconducibili alla più ampia categoria dell’imprenditore agricolo e spesso accumunate dall’applicabilità delle medesime norme agevolative, delineano due figure professionali profondamente differenti: la prima avente carattere imprenditoriale, la seconda più legata alla attività personale del coltivatore. È dunque possibile, come nel caso esaminato dalla Corte di cassazione, che taluno si qualifichi come coltivatore diretto pur in assenza dei requisiti per essere considerato imprenditore agricolo professionale, e viceversa.
Più in dettaglio, la Cassazione ha sottolineato che la definizione di coltivatore diretto è contenuta in diverse norme di carattere speciale previste per il settore agricolo, le quali definiscono tale colui che si dedichi direttamente e abitualmente alla coltivazione del fondo, con lavoro proprio e della propria famiglia, e purché la forza lavoro del nucleo familiare non sia inferiore a un terzo di quella occorrente per le normali necessità di coltivazione del fondo.
La figura dello Iap, invece, è delineata all’articolo 1 del Dlgs 99/2004, che esige per quest’ultimo il possesso di specifiche conoscenze e competenze professionali, nonché il rispetto di specifici requisiti di tempo e lavoro e, in dettaglio, che l’imprenditore dedichi alle attività agricole di cui all’articolo 2135 del Codice civile, direttamente o in qualità di socio di società, la prevalenza del proprio tempo di lavoro complessivo e che i ricavi delle suddette attività siano prevalenti sul proprio reddito globale.
Da ciò emerge, dunque, come lo Iap non sia tenuto a coltivare direttamente il fondo, ben potendosi avvalere di maestranze e assumere un “ruolo dirigenziale”, essendo sufficiente che gestisca direttamente il terreno. Al contrario, per un coltivatore diretto assume un ruolo determinante il legame con il fondo agricolo e il collegamento diretto con l’esercizio dell’attività sul campo.
21 luglio 2025 | Fonte: https://ntplusentilocaliedilizia.ilsole24ore.com
Stop del Comune all’attività che non paga i tributi locali ma solo per violazioni gravi e definitivamente accertate
Previa adozione di un regolamento approvato dal consiglio, il Suap, a seguito di segnalazione di pendenze tributarie dall’ufficio tributi dell’ente, può inibire l’avvio o sospendere un’attività produttiva in corso.
Importante precisazione della giurisprudenza amministrativa sul potere dei Comuni, e per essi del Suap, di ordinare la chiusura di un’attività commerciale o di inibirne l’avvio in caso di mancato regolare pagamento dei tributi locali.
Il Consiglio di giustizia amministrativa per la Regione Siciliana, con la sentenza n. 338/2025, annullando i provvedimenti sanzionatori adottati da un Comune, fornisce utili strumenti orientativi agli enti locali in sede di esercizio del potere conferito dall’articolo 15-ter del Dl 34/2019, in tema di contrasto all’evasione dei tributi locali.
La disposizione stabilisce espressamente che «gli enti locali competenti al rilascio di licenze, autorizzazioni, concessioni e dei relativi rinnovi, alla ricezione di segnalazioni certificate di inizio attività, uniche o condizionate, concernenti attività commerciali o produttive possono dispone, con norma regolamentare, che il rilascio o il rinnovo e la permanenza in esercizio siano subordinati alla verifica della regolarità del pagamento dei tributi locali da parte dei soggetti richiedenti».
In sostanza, previa adozione di un regolamento approvato dal consiglio comunale, lo Sportello Unico per le Attività Produttive, a seguito di apposita segnalazione di pendenze tributarie segnalate dal competente ufficio tributi dell’Ente, può inibire l’avvio o sospendere un’attività produttiva in corso.
Ma in quali casi è possibile e soprattutto seguendo quale iter?
In applicazione dei basilari principi di legalità, del contraddittorio e del diritto di difesa, e secondo un’interpretazione costituzionalmente orientata, la procedura prevista dall’articolo 15-ter del Dl 34/19 e dei regolamenti comunali di attuazione può riguardare esclusivamente i casi di violazioni:
- gravi, comunque da esplicitarsi e circoscriversi nel regolamento comunale;
- definitivamente accertate, contenute cioè in sentenze o atti amministrativi non più soggetti a impugnazioni.
Al di fuori di queste fattispecie, diversamente, basterebbe una generica e anche lieve irregolarità nel pagamento dei tributi locali per esporre l’impresa a rischio di chiusura da parte del Comune, senza nessuna possibilità d’appello o di contraddittorio preventivo e peraltro in violazione del principio di proporzionalità, canone fondamentale del procedimento sanzionatorio.
L’impresa così sarebbe costantemente ostaggio della pretesa di pagamento del debito da parte dell’ente, a prescindere dall’entità e senza potersi difendere, pur di non essere espulsa dal mercato.
Tuttavia, se così fosse, lo stesso articolo 15-ter della norma primaria, generico nella sua formulazione, sarebbe incostituzionale.
Invece, per una corretta prassi, al fine di sventare l’annoso problema dell’evasione tributaria locale, i Comuni possono sì subordinare, con proprio regolamento, l’avvio o la permanenza di un’attività produttiva alla condizione di verificare il regolare pagamento dei tributi propri ma solo per violazioni gravi e definitivamente accertate.
21 luglio 2025 | Fonte: https://smart24tributilocali.ilsole24ore.com
Legittimo applicare l’IMU sul prezzo d’acquisto dell’area edificabile
La valutazione del giudice del merito che assuma come parametro oggettivo di riferimento il prezzo dichiarato di acquisto dell’area fabbricabile e motivi congruamente le ragioni per le quali lo tesso debba considerarsi corretto, è incensurabile.
L’ordinanza 19815/2025 conferma l’operato della CTR che ha autonomamente rideterminato il valore venale delle aree con riferimento al prezzo di acquisto.
Nella sentenza impugnata si legge: “La Commissione ritiene che il valore da prendere a base per il calcolo dell’IMU – pur riconoscendo la brusca diminuzione del valore commerciale de terreno, le difficoltà del periodo, della stagnazione del mercato, della riduzione della superficie imponibile per i nuovi standard e non ultimo gli effetti del Covid – sia senz’altro il valore che la società ha pagato il terreno. Quello è indiscutibilmente il valore di mercato sul quale calcolare l’imposta dovuta, anche se la società ha dichiarato, in sede di denuncia un corrispettivo di euro 30,00/mq, valore che poteva essere congruo se riferito a somme accessorie di acquisto (costo del notaio, imposta di registro, ecc.)”
Con riferimento ai criteri di determinazione del valore del terreno oggetto di stima, questa Corte, in tema di ICI, ha da tempo affermato che ai fini della determinazione del valore imponibile è necessario che la misura del valore venale in comune commercio sia ricavata in base ai parametri vincolanti e tassativi previsti dall’art. 5, comma 5, del d.lgs. 31 dicembre 1992, n. 504 (che, per le aree fabbricabili, devono avere riguardo alla zona territoriale di ubicazione, all’indice di edificabilità, alla destinazione d’uso consentita, agli oneri per gli eventuali lavori di adattamento del terreno necessari per la costruzione, ai prezzi medi rilevati sul mercato della vendita di 5 aree aventi analoghe caratteristiche) solo laddove si debba pervenire al calcolo del valore venale in comune commercio in mancanza di un valore direttamente riferibile al terreno oggetto di stima; diversamente nel caso in cui il valore del terreno, e quindi il suo prezzo, sia già assegnato, perché posto in vendita, il valore fissato a quel terreno, considerato congruo o rettificato con avviso di accertamento divenuto definitivo, ne rappresenta il valore venale in comune commercio, sicché la valutazione del giudice del merito che, investito della questione del valore attribuito ad un’area fabbricabile, assuma come parametro oggettivo di riferimento il prezzo dichiarato di acquisto dell’area fabbricabile, motivi congruamente le ragioni per le quali lo tesso debba considerarsi corretto, è incensurabile in sede di legittimità” (Cass. n. 14118 del 2017; Cass. n. 27807 del 208; Cass. 11445 del 2018).
https://smart24tributilocali.ilsole24ore.com/#showdoc/43908571
luglio 2025 | Fonte: https://smart24tributilocali.ilsole24ore.com
IMU dovuta dal concessionario di patrimonio indisponibile
Con la sentenza 18946/2025, la Cassazione conferma la soggettività passiva IMU del concessionario di patrimonio indisponibile, in applicazione dell’art. 9 comma 1 del d lgs 232011 che ha attribuito la soggettività passiva IMU al concessionario di aree demaniali
Il collegio giudicante ricorda che secondo un principio di diritto applicabile anche in tema di IMU la cui disciplina espone una medesima disposizione (d.lgs. 14 marzo 2011, n. 23, art. 9, comma 1) – «l’art. 18, comma 3, della l. n. 388 del 2000, nel modificare l’art. 3, comma 2, del d.lgs. n. 504 del 1992, prevedendo che “nel caso di concessione su aree demaniali soggetto passivo è il concessionario“, ha reso quest’ultimo, a partire dall’annualità 2001, di applicabilità della nuova disciplina, obbligato non solo sostanziale, in sede di rivalsa del concedente, ma anche formale, facendo venir meno la necessità di accertare se la concessione attributiva del diritto di costruire immobili sul demanio avesse effetti reali, con conseguente tassabilità degli immobili ai fini ICI in capo al concessionario, od obbligatori, con l’opposta conseguenza dell’intassabilità.» (v. Cass., 10 dicembre 2010, n. 24969 cui adde, ex plurimis, Cass., 15 dicembre 2020, n. 28563; Cass., 10 aprile 2019, n. 10006).
Anche in presenza di disposizioni eccezionali o di carattere tassativo l’interprete è tenuto a ricercare, pur senza superarlo arbitrariamente, l’esatto valore semantico della formula legislativa al fine di stabilire se la regula juris debba essere “estesa” (o, più esattamente, dichiarata applicabile), secondo l’intenzione del legislatore, a casi che pur non risultando espressamente considerati nel testo della norma, debbono ritenersi in esso implicitamente compresi e disciplinati», alla stregua, quindi, di un’interpretazione volta ad enucleare la «massima capacità di espansione» del contenuto della disposizione normativa
Secondo un consolidato, e risalente, orientamento interpretativo delle Sezioni Unite della Corte, l’attribuzione a privati dell’utilizzazione di beni del demanio o del patrimonio indisponibile dello Stato o dei Comuni, quale che sia la terminologia adottata nella convenzione ed ancorché essa presenti elementi privatistici, è sempre riconducibile, ove non risulti diversamente, alla figura della concessione-contratto, atteso che il godimento dei beni pubblici, stante la loro destinazione alla diretta realizzazione di interessi pubblici, può essere legittimamente attribuito ad un soggetto diverso dall’ente titolare del bene – entro certi limiti e per alcune utilità – solo mediante concessione amministrativa; ed in particolare si è rimarcato che nella figura della concessione-contratto «la Pubblica Amministrazione è titolare di una posizione particolare e privilegiata rispetto all’altra parte, in quanto dispone, oltre che dei diritti e della facoltà che nascono comunemente dal contratto, di pubblici poteri che derivano direttamente dalla necessità di assicurare il pubblico interesse in quel particolare settore, in cui la concessione è diretta a produrre i suoi effetti.
Riguardo del titolo di godimento del bene del patrimonio indisponibile, alcuna differenziazione si pone rispetto alla fattispecie oggetto di espressa previsione normativa («Nel caso di concessione di aree demaniali, soggetto passivo è il concessionario.»; d.lgs. n. 23 del 2011, art. 9, comma 1, cit.); e la congiunzione delle due fattispecie in esame ancor più rileva nell’identificazione del presupposto di imposta che lì e qui si raccorda al godimento di un bene oggetto di concessione amministrativa
Può, dunque, enunciarsi il seguente principio di diritto: «In tema di IMU, sussiste la soggettività passiva del concessionario di beni del patrimonio indisponibile ricorrendo l’eadem ratio della disposizione che ha individuato la soggettività passiva nel concessionario di beni demaniali (d.lgs. 14 marzo 2011, n. 23, art. 9, comma 1), considerato che sia i beni demaniali che quelli del patrimonio indisponibile appartengono alla categoria generale dei beni pubblici, non sussistendo tra le due categorie una sostanziale differenza quanto alla funzione esercitata, e che il presupposto del tributo deve identificarsi, nell’uno così come nell’altro caso, nel godimento del bene oggetto di concessione.
https://smart24tributilocali.ilsole24ore.com/#showdoc/43908601
22 luglio 2025 | Fonte: https://smart24tributilocali.ilsole24ore.com
IMU, esenzione per temporaneo inutilizzo
Il temporaneo inutilizzo (per ragioni più o meno transitorie) non equivale alla definitiva cessazione della destinazione pubblicistica del bene; per cui, anche la perdita dell’esenzione prevista dall’art. 7, comma 1, lett. a), del d.lgs. 30 dicembre 1992, n. 504 (al pari di quella prevista dall’art. 9, comma 8, del d.lgs. 14 marzo 2011, n. 23), può giustificarsi soltanto in presenza di una situazione di fatto o di una scelta dell’ente pubblico che determini l’irreversibile inutilizzabilità del bene per l’attuazione delle finalità istituzionali (come nel caso del venir meno della sua disponibilità), non essendo sufficiente a tal fine la sopravvenienza di una materiale interruzione (ancorché di imprevedibile durata) nella latente continuità della vocazione funzionale del bene, anche se il ripristino dell’originaria destinazione (seppure in relazione strumentale ad un diverso settore della medesima amministrazione) possa dipendere dalle scelte organizzative o dalle esigenze finanziarie dell’ente pubblico (in termini: Cass., Sez. 5^, 11 febbraio 2021, n. 3445).
La questione affrontata (Cassazione n. 18941/2025) riguarda un complesso ospedaliero che presentava delle aree inutilizzate rispetto alla funzione ospedaliera ma venivano utilizzate come magazzino.
La Cassazione critica la decisione del giudice di appello che ha improntato l’intera decisione su un rilevato inutilizzo delle superfici accertate, senza, tuttavia, verificare se ciò fosse sintomo di un irreversibile mutamento della destinazione a fini protetti del bene, arrivando persino ad affermare che solo la concreta esecuzione di lavori sugli immobili avrebbe potuto giustificare l’esenzione.
La funzione di archivio, magazzino e logistica, cui sono state adibite alcune superfici del complesso a seguito del trasferimento dell’ospedale sono strettamente strumentali rispetto allo svolgimento delle funzioni sanitarie ed amministrative proprie della Azienda Usl. (…) La funzione di magazzino partecipa, pertanto, strumentalmente allo svolgimento dei compiti istituzionali dell’Ente, essendo volta a garantire la logistica delle attrezzature necessarie per lo svolgimento di tali compiti.
Il requisito della destinazione “concreta” ed “effettiva” è condizione necessaria per l’accesso all’esenzione non solo per gli immobili posseduti dagli enti non commerciali ai sensi della lettera g) del comma 759, ma anche per la fattispecie della lettera a) quindi, gli immobili posseduti dallo Stato, dai comuni, dalle regioni, dalle province, dalle comunità montane, dai consorzi fra detti enti e dagli enti del Servizio sanitario nazionale, destinati esclusivamente ai compiti istituzionali.
https://smart24tributilocali.ilsole24ore.com/#showdoc/43908607
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luglio 2025 | Fonte: https://smart24tributilocali.ilsole24ore.com
Corretto l’avviso di accertamento CUP basato su un verbale Polizia Municipale
Una recente sentenza del Tribunale di Napoli (n. 4171/2025 del 28/04/2025) affronta la questione relativa l’opposizione ad un avviso di accertamento emesso a fronte di un verbale della Polizia Municipale con il quale veniva contestata l’occupazione abusiva di suolo pubblico, realizzata con elementi non di carattere stabile, tali da qualificarli come strutture temporanee, ovvero soggette al pagamento su base di tariffa giornaliera.
Nella sentenza si legge: “Orbene, in materia di occupazione di suolo pubblico il verbale rileva come titolo per fondare la pretesa dell’amministrazione al recupero dell’indennità prevista dal Regolamento comunale. Esso rappresenta l’atto-documento rilevante nella sua dimensione probatoria di fatto-storico dell’avvenuta occupazione di suolo pubblico, fondante la pretesa di pagamento della relativa indennità. Eventuali vizi afferenti aspetti formali del verbale stesso, a meno che non diano luogo ad una compressione totale del diritto di difesa dell’interessato, non integrano fatti impeditivi del diritto della p.a. alla corresponsione del canone per occupazione di suolo pubblico. Le pretese dell’ente pubblico territoriale hanno, quindi, natura di diritto di credito, sicché la relazione tra le parti va inquadrata nel tipo pretesa-obbligo e non nel tipo potere – interesse legittimo. Il processo, in sintesi, non ha ad oggetto l’atto, in sé privo di effetti negativi nei confronti del privato, bensì il rapporto.”
I giudici campani proseguono specificando che: “posto che oggetto della cognizione è il rapporto giuridico complessivamente considerato, l’azione introdotta dall’opponente va qualificata come domanda di accertamento negativo, nell’ambito della quale l’onere della prova del credito spetta al suo titolare, ossia al Comune (Cass. Civ., Sez. III, 12 dicembre 2014, n. 26158).”
Detto onere risulta essere stato raggiunto dalla documentazione portate alla luce da parte della difesa dell’amministrazione convenuta, la quale ha provato che le modalità e i mezzi con i quali si è provveduto all’occupazione del suolo pubblico risultano conformi al Regolamento comunale in materia vigente ratione temporis, secondo cui le occupazioni abusive che non presentano il carattere di stabilità si considerano temporanee e si presumono effettuate dal trentesimo giorno antecedente la data del verbale di accertamento redatto da competente pubblico ufficiale. È evidente anche per i giudici del Tribunale di Napoli come gli oggetti utilizzati dall’attore per l’occupazione non sono suscettibili di generare un’occupazione permanente.
Corretto pertanto l’operato del Comune che sulla scorta del verbale redatto dagli Agenti di Pm ha notificato il provvedimento messo a disposizione dal legislatore per il recupero del giusto Canone, o meglio per il recupero dell’Indennità, dovuta a favore dell’ente territoriale per l’occupazione temporanea del suolo pubblico sfruttato con panche mobili, cassette di legno e merce, senza la preventiva concessione e regolarizzazione. Richiesta calcolata secondo il criterio afflittivo voluto dal Legislatore per i 30 giorni antecedenti la data del verbale redatto dalla Polizia Locale.
https://smart24tributilocali.ilsole24ore.com/#showdoc/43893071
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luglio 2025 | Fonte: https://smart24tributilocali.ilsole24ore.com
L’indennità CUP va calcolata solo sulla superficie eccedente quella autorizzata
La Corte D’ Appello di Milano con la sentenza numero 1360 del 13/5/2025 affronta il criterio di applicazione dell’indennità, quella speciale forma di recupero del canone da utilizzare tutte le volte che viene rilevata un’occupazione di suolo pubblico o un’esposizione pubblicitaria abusiva, ovvero realizzata senza titolo o in modo difforme dalla concessione o autorizzazione rilasciata dall’Ente proprietario della strada.
I giudici milanesi in particolare affrontano il corretto approccio che deve essere seguito quando il titolare di una concessione effettua un’occupazione di superficie superiore a quanto previsto nell’atto amministrativo, innescando un calcolo dell’indennità parziale rispetto all’intera superficie occupata.
Analisi normativa
Prima di analizzare le motivazioni della sentenza, ripercorriamo la genesi dell’indennità all’interno della disciplina del Canone Unico Patrimoniale, rappresentando senza dubbio uno dei passaggi normativi di maggior interesse che ritroviamo alla lettera G del comma 821 della Legge 160/201. Il comma dedicato alle disposizioni regolamentari che devono essere adottate dai comuni, prevede proprio la disciplina dell’indennità da applicarsi in caso di occupazioni ed esposizioni abusive, realizzate senza titolo o in modo difforme da esso e rilevate a seguito di verbale redatto da pubblico ufficiale.
Il comma testualmente prevede come gli enti debbano disciplinare all’interno del proprio Regolamento l’ipotesi di applicazione dell’indennità e il criterio del suo calcolo a seconda della natura dell’abuso accertato da parte del pubblico ufficiale: “per le occupazioni e la diffusione di messaggi pubblicitari realizzate abusivamente, la previsione di un’indennità pari al canone maggiorato fino al 50 per cento, considerando permanenti le occupazioni e la diffusione di messaggi pubblicitari realizzate con impianti o manufatti di carattere stabile e presumendo come temporanee le occupazioni e la diffusione di messaggi pubblicitari effettuate dal trentesimo giorno antecedente la data del verbale di accertamento, redatto da competente pubblico ufficiale;”
Il Legislatore ha voluto espressamente prevedere il criterio di calcolo da adottare partendo da quello che sarebbe stato il canone da versare nel caso in cui l’occupazione o la diffusione pubblicitaria rilevata fosse stata regolarmente dichiarata e provvista di titolo amministrativo, lasciando ai singoli enti locali la percentuale di maggiorazione da applicare, fino ad un massimo del 50 per cento.
In particolare, per le occupazioni e la diffusione di messaggi pubblicitari realizzate con impianti o manufatti di carattere stabile, è stato disposto di adottare la tariffa permanente, ovvero quella definita ad anno solare, il cui importo è stato fissato al comma 826 della L. 160/2019, ma che ogni ente potrà modificare in base ai propri equilibri, mentre, per le occupazioni di carattere temporaneo, il Legislatore ha adottato un criterio di calcolo basato su una finzione giuridica, ovvero ipotizzando la durata dell’occupazione o dell’esposizione pubblicitaria temporanea come se fosse stata realizzata nei trenta giorni antecedenti alla data del verbale di accertamento.
Una misura quest’ultima che deve intendersi con presunzione iuris et de iure, non ammettendo prova contraria trattandosi di una modalità di calcolo afflittiva nei confronti del trasgressore che ha occupato/esposto abusivamente. Un metodo di calcolo che si rende necessario per non svilire l’attività di accertamento che viceversa dovrebbe eseguirsi solo in funzione della data in cui è stata accertata l’occupazione o l’esposizione pubblicitaria abusiva.
La sentenza
Scrivono i giudici della Corte d’Appello milanese: “L’indennità prevista dalla lett. a) cit. è parametrata, con una maggiorazione, al canone che in astratto sarebbe dovuto per un’occupazione legittima della stessa porzione, senza interferenze con il canone in concreto dovuto per l’occupazione legittima di altra porzione. 4.2. Risulta, pertanto, non condivisibile il rilievo del Tribunale contenuto nella sentenza appellata, secondo cui, essendo l’indennità di cui alla lett. a) distinta dalle sanzioni previste dalla lett. b) e dalla lett. c), si dovrebbe “tenere conto di quanto già versato dall’opponente per l’occupazione lecita di parte dello spazio, onde evitare di imputare al medesimo soggetto più importi per il medesimo fatto”. L’indennità dovuta al Comune, calcolata in relazione ai metri quadri occupati senza autorizzazione, rimane, infatti, distinta dal canone versato per l’occupazione legittima, sicché, ai fini della determinazione, non sarebbe corretto tener conto di quanto già versato per l’occupazione lecita di (altra) parte dello spazio.”
È chiaro, secondo le indicazioni della Corte d’Appello, come il calcolo dell’indennità debba riguardare solo la superficie eccedente quella autorizzata che chiaramente era già stata oggetto di calcolo in base alle tariffe “ordinarie” del canone deliberate dal Comune.
Conclusioni
In definitiva possiamo affermare che in caso di occupazione parzialmente abusiva, perché eccedente la metratura di quanto originariamente autorizzato, la richiesta di pagamento, da effettuarsi a mezzo Avviso di Accertamento ex comma 792 della L. 160/2019, dovrà considerare solo la maggior superficie occupata ed applicare conseguentemente il calcolo dell’indennità basato sulla corrispondente tariffa CUP maggiorata fino al 50%.
Sarebbe a questo punto sbagliato qualsiasi diverso approccio, come ad esempio quello di considerare l’intera superficie occupata come coinvolta dall’abuso, calcolando di conseguenza l’indennità su tutta l’area occupata, anche per quella parte per la quale era stata ottenuta regolarmente l’autorizzazione, e considerare di conseguenza quanto già versato a titolo di canone come acconto sulla nuova somma dovuta.
https://smart24tributilocali.ilsole24ore.com/#showdoc/43893487
24 luglio 2025 | Fonte: https://ntplusfisco.ilsole24ore.com
Tari, la stagionalità per la riduzione va dimostrata solo con la dichiarazione
Non è possibile surrogare l’acquisizione dei dati in forma diversa dalla denuncia perché impedirebbe o renderebbe difficile per il Comune stabilire la misura della tassa dovuta.
La denuncia con modelli predisposti dal Comune per la Tari rappresentano l’unico strumento idoneo, per una struttura alberghiera caratterizzata da un’attività stagionale, per la determinazione del tributo dovuto, anche ai fini della richiesta di riduzione. È quanto affermato dalla Cassazione con l’ordinanza 20587/2025.
L’omessa denuncia al Comune
Il contenzioso tributario nasce a seguito di un avviso di pagamento relativo alla Tari per il 2021 emesso da un Comune nei confronti di una società. La Corte di giustizia tributaria di secondo grado, confermando la tesi dei giudici di prime cure, ha respinto il ricorso sulla base, tra l’altro del fatto che la società non ha assolto l’onere probatorio relativo alla stagionalità dell’attività delle due strutture alberghiere oggetto dell’atto impositivo emesso dell’ente locale, in assenza della relativa denuncia.
La società contribuente nel ricorso in Cassazione censura il fatto che la sentenza dei giudici del merito non ha tenuto conto che era stato documentato con perizia la stagionalità estiva dell’attività delle strutture alberghiere. La stagionalità dell’attività, tra l’altro secondo la società ricorrente, era ben nota al Comune (si trattava di un ente locale di una famosa isola italiana) ciò rendendo incomprensibile la motivazione della sentenza impugnata nella parte in cui escludeva la riduzione, per non avere la ricorrente dimostrato in quali mesi il servizio non venisse utilizzato.
In sostanza il ricorso si basava sulla possibilità di dimostrare in giudizio, la stagionalità dell’attività, quale presupposto di riduzione del tributo, indipendentemente dalla formalizzazione della richiesta a mezzo di denuncia al Comune, su apposito modulo.
Come ottenere la riduzione
I giudici di legittimità richiamano preliminarmente un precedente che, con riferimento alla Tarsu (lo stesso criterio vale ai fini della Tari) ha affermato «il carattere stagionale dell’uso dei locali, ai fini della riduzione della tariffa, deve essere allegato e documentato dal contribuente in sede di denuncia originaria o in variazione dei presupposti della tassa e, in difetto, la relativa circostanza non può essere fatta valere nel giudizio di impugnazione dell’atto impositivo».
La norma impone il ricorso ai modelli predisposti dal Comune, quali unici ritenuti idonei a soddisfare la chiarezza dei dati offerti dal contribuente all’ente impositore per la determinazione del tributo dovuto; non è possibile surrogare l’acquisizione dei dati in forma diversa dalla denuncia (come per esempio la comunicazione di chiusura invernale dell’attività al Comune), posto che ciò impedirebbe o renderebbe inutilmente difficile per il Comune stabilire la misura della tassa dovuta, imponendogli di provvedere necessariamente ad un accertamento.
Per la Cassazione è , pertanto, corretta la sentenza dei giudici del merito nella parte in cui pone il mancato adempimento da parte della società dell’obbligo di denuncia come presupposto del rigetto della domanda di riduzione della Tari, sebbene meno precisa risulti la decisione laddove afferma che la società non ha dimostrato per quali mesi il servizio di raccolta non viene effettuato o realizzato, questo rilevando solo nella fase amministrativa in caso di regolare presentazione della denuncia.
25 luglio 2025 | Fonte: https://ntplusentilocaliedilizia.ilsole24ore.com
Imu, spetta ai Comuni stabilire quando l’attività sportiva è svolta con modalità commerciali
La legge di conversione del Dl 84/2025, approvata dalla Camera il 22 luglio e ora all’esame del Senato, introduce una rilevante novità in materia di esenzione
La legge di conversione del Dl 84/2025, approvata dalla Camera il 22 luglio e ora all’esame del Senato, introduce una rilevante novità in materia di esenzione Imu per le attività sportive.
La normativa prevede l’esenzione per gli immobili posseduti da enti non commerciali e utilizzati per attività sportive, svolte però con modalità non commerciali. Il Dm 200/2012 definisce attività sportive quelle rientranti nelle discipline riconosciute dal Coni svolte dalle associazioni sportive e non aventi scopo di lucro, affiliate alle federazioni sportive nazionali o agli enti nazionali di promozione sportiva riconosciuti secondo l’articolo 90 della legge 289/2002. Lo svolgimento di attività sportive si ritiene effettuato con modalità non commerciali se svolte a titolo gratuito, ovvero dietro versamento di un corrispettivo simbolico e, comunque, non superiore alla metà dei corrispettivi medi previsti per analoghe attività svolte con modalità concorrenziali nello stesso ambito territoriale.
È proprio su quest’ultimo aspetto che interviene l’articolo 6-bis del Dl 84/2025 licenziato dalla Camera dei Deputati. La nuova disposizione prevede che i Comuni debbano individuare, sentite le rappresentanze sportive locali, i corrispettivi medi previsti per analoghe attività svolte con modalità concorrenziali nello stesso ambito territoriale per verificare il rispetto delle condizioni previste dal Dm 200/2012, ovvero che i corrispettivi applicati dall’ente non commerciale non siano superiori alla metà di quelli applicati da chi svolge attività commerciale. Per ambito territoriale si intende quello comunale e, nel caso in cui non esistano strutture di riferimento all’interno del singolo Comune, detto ambito può essere esteso fino a quello regionale.
La nuova disposizione prevede anche che i corrispettivi medi siano individuati annualmente dai Comuni, i quali li devono pubblicare sul proprio sito internet istituzionale.
Il comma 2 dell’articolo 6-bis prevede che, nelle more dell’attuazione delle nuove disposizioni, ai fini dell’esenzione Imu per le associazioni sportive dilettantistiche e per le società sportive dilettantistiche di cui all’articolo 90 della legge 289/2002, rileva la sola iscrizione nel registro nazionale delle attività sportive di cui all’articolo 4 del Dlgs 39/2021, a valere dall’anno di iscrizione nel registro. In ogni caso, si precisa, non si dà luogo al rimborso delle somme già versate.
È proprio quest’ultima precisazione che genera non pochi dubbi, perché farebbe presupporre una retroattività della disposizione fin dall’anno di iscrizione nel registro, diversamente non si spiegherebbe il divieto al rimborso delle somme già pagate. Ma l’iscrizione rileva solo se il Comune non individua il corrispettivo medio, ma tale obbligo è nuovo, sicché la norma non può avere effetto retroattivo, sebbene le intenzioni probabilmente fossero quelle.
28 luglio 2025 | Fonte: https://ntplusentilocaliedilizia.ilsole24ore.com
Sanatoria ampia sulle nuove delibere Imu
Possibile correzione anche per le decisioni «difformi» dal prospetto ministeriale
Nel variegato mondo della fiscalità locale non esiste un termine unico per approvare aliquote e tariffe, sebbene la regola generale direbbe che il termine è quello del preventivo.
La disciplina dei tributi è retta più dalle eccezioni che dalle regole, e occorre anche ricordarsi dell’articolo 6 del Dl 84/2025, che prevede la «Proroga e sanatoria delle delibere approvative del Prospetto Imu».
La disposizione prevede di approvare il prospetto entro il 15 settembre, dopo l’approvazione alla Camera di un emendamento che allarga e chiarisce la portata della norma (atteso domani al voto finale del Senato senza altre modifiche).
La sanatoria prevede oggi la proroga per i Comuni che non hanno adottato entro il 28 febbraio 2025 la delibera di approvazione del prospetto secondo le modalità previste dal comma 757 della legge n. 160/2019. Con l’emendamento è stata aggiunta anche l’ipotesi di «difformità» dal prospetto, che rappresenta il caso più frequente in questo primo anno di applicazione del nuovo sistema. La proroga vale anche per i Comuni che hanno approvato le aliquote Imu, ma senza il prospetto, ed è anche prevista la sanatoria per le delibere tardive, approvate dal 1° marzo fino al 18 giugno, data di entrata in vigore del decreto.
Ci sono poi le tante eccezioni per legge, come quella delle tariffe Tari entro il 30 aprile, termine sempre prorogato (quest’anno al 30 giugno) e che dal 2026, almeno secondo lo schema di Dlgs sul fisco locale, dovrebbe essere fissato al 31 luglio.
Per l’imposta di soggiorno non c’è termine, perché l’articolo 15-quater del Dl 201/2011 prevede che regolamenti e delibere hanno effetto dal primo giorno del secondo mese successivo a quello della loro pubblicazione sul portale del federalismo fiscale.
Tra le scadenze va considerata anche quello «eccezionale» prevista dall’articolo 193, comma 3, del Tuel, in base al quale per il ripristino degli equilibri di bilancio l’ente può modificare tariffe e aliquote dei tributi entro il 31 luglio, data prevista per la verifica degli equilibri generali di bilancio.
La norma è in deroga al comma 169 della legge 296/2006, che fissa l’approvazione delle aliquote entro il termine del bilancio, ma può essere esercitata solo per garantire gli equilibri se la verifica della gestione finanziaria faccia prevedere un disavanzo.
La deroga non può quindi essere utilizzata per dimenticanze, o per rimediare alla tardiva approvazione di aliquote o tariffe, come precisato dalle Finanze nella risoluzione 1/2017. La variazione, preordinata a evitare un possibile disavanzo, deve consistere in aumenti delle aliquote o tariffe.
29 luglio 2025 | Fonte: https://smart24tributilocali.ilsole24ore.com
IMU agricola. Sufficiente il requisito dell’iscrizione alla previdenza agricola
Il Collegio richiamando la sentenza n. 13131 del 2023, confermata con le ordinanze nn. 20563, 19432, 11882 e 10876 del 2024, ribadisce che in tema di IMU, per effetto delle norme di interpretazione autentica di cui all’art. 78-bis, commi 2 e 3, del d.l. n. 104 del 2020, applicabili retroattivamente, la condizione di pensionato non può costituire di per sé un elemento ostativo ai fini del trattamento agevolativo per i terreni agricoli dallo stesso posseduti in quanto la permanenza del requisito dell’iscrizione alla previdenza agricola, che già presuppone una valutazione del reddito agrario rispetto ad altri redditi, secondo i criteri fissati ai fini previdenziali, costituisce l’unica condizione richiesta per la fruizione dei benefici fiscali.
La discrezionalità del legislatore risulta ragionevolmente esercitata in quanto la ratio dell’agevolazione, volta al sostegno ed all’implementazione dell’attività agricola, è sufficientemente assicurata dalla presenza del requisito dell’iscrizione alla gestione assicurativa e previdenziale che costituisce, oltre ad un dato formale, anche la garanzia della persistenza dei requisiti sostanziali che tale iscrizione presuppone.
https://smart24tributilocali.ilsole24ore.com/#showdoc/43941719
29/07/2025 https://smart24tributilocali.ilsole24ore.com
Il CUP per il servizio idrico si paga per due distinte reti: acqua potabile e fognatura
Nell’ambito del canone per i servizi di rete, regolato al comma 831, art.1 della Legge 160/2019 e inserito all’interno della disciplina CUP, abbiamo in diverse occasioni commentato sentenze, leggi e comportamenti, legati sia ai criteri per individuare la soggettività passiva a carico delle aziende che nel nostro Paese erogano i servizi, sia ai diversi criteri di calcolo utilizzati dai gestori per liquidare il dovuto in base alle utenze attive in relazione ai servizi erogati.
Oggi torniamo sul tema concentrando l’attenzione sui servizi legato al Ciclo Idrico. Settore nel quale dobbiamo registrare una varietà di comportamenti nei diversi ambiti territoriali distribuiti nel Paese. Alcune aziende non hanno mai versato nulla (ritenendosi estranee o esenti rispetto al presupposto), altre invece hanno conteggiato il dovuto sulla base di un unico servizio erogato (il servizio di acqua potabile) ed altre infine hanno sempre versato in relazione sia all’erogazione del servizio di acqua potabile sia per l’allacciamento alla rete fognaria.
Riferimenti normativi
Per capire il corretto approccio da riservare alla quantificazione del canone per i servizi legati al sistema idrico integrato, dobbiamo preliminarmente analizzare gli articoli del Decreto legislativo 152 del 2007 e le indicazioni fornite di ARERA, l’Autorità di Regolazione per Energia Reti e Ambiente.
L’articolo 147 del decreto chiarisce innanzi tutto che i servizi idrici sono organizzati sulla base degli Ambiti Territoriali Ottimali (ATO), ossia porzioni di territorio la cui delimitazione è definita dalle Regioni nel rispetto di diversi principi, che hanno portato a registrare 64 ambiti, distribuiti sul territorio nazionale e che saranno quindi oggetto di valutazione sotto il profilo fiscale derivante dall’applicazione del CUP da parte dei singoli enti territoriali serviti dal gestore di ciascun ATO.
Così come riportato nel D.P.C.M. 20 luglio 2012, il servizio idrico integrato, gestito, secondo principi di efficienza, efficacia ed economicità, nel rispetto delle norme nazionali e comunitarie, è costituito dall’insieme dei servizi pubblici di captazione, adduzione e distribuzione di acqua ad usi civili, di fognatura e depurazione delle acque reflue, compresi i servizi di captazione adduzione a usi multipli e i servizi di depurazione ad usi misti civili e industriali.
Ecco quindi che i servizi di riferimento nel sistema idrico integrato sono sostanzialmente tre: erogazione acqua, allaccio alla fognatura e depurazione delle acque reflue.
Quelli effettivamente rilevanti ai fini dell’applicazione del Canone Unico in base alle disposizioni contenute nel comma 831, e in base ai requisiti oggettivi e soggettivi previsti per definire un servizio pubblico, sono pertanto quelli di distribuzione dell’acqua potabile e quello di allaccio alla rete fognaria. Due distinti servizi che vengono erogati alle singole utenze.
La sentenza della Corte di Cassazione
Nella ricerca della corretta linea da seguire da parte degli uffici fiscali degli enti locali in merito ai controlli dedicati al pagamento del Canone per il servizio idrico, intervenne già nel 2020 la Sezione V della Corte di Cassazione, con la sentenza n. 2180 del 30.01.2020, che si occupò proprio dell’applicazione dell’allora prelievo per i servizi di rete in regime TOSAP (mutuato oggi in regime CUP) a carico di una società a partecipazione mista pubblico-privata che gestiva, e gestisce tuttora, il servizio idrico integrato nell’Umbria.
In particolare in questa sentenza fu evidenziato come l’applicazione del canone dovesse riguardare due distinti servizi, quello di erogazione dell’acqua potabile e quello di fognatura.
I giudici della Suprema Corte scrissero infatti: “Occorre infatti tenere distinte ai fini in questione la natura unitaria della gestione del servizio, dall’occupazione dello spazio pubblico degli impianti relativo alle condotte fognarie, che si differenzia da quella delle condotte idriche sicché non si può parlare di una duplicazione di tassazione.”
Sulla base di questo principio: “La società Umbra Acque s.p.a, quale affidataria del servizio idrico integrato, utilizza il suolo pubblico per un uso specifico percependo per l’attività economica resa un introito diverso per la prestazione idrica e per quella fognaria ed è pertanto legittima la pretesa impositiva avanzata dalla Provincia in relazione alla sottrazione del proprio patrimonio alla generalità dei cittadini, che rappresenta il presupposto per la tassazione.”
La sentenza della Cassazione rappresenta ancora oggi un punto di riferimento importante per gli uffici dei Comuni nel condurre la propria attività di controllo e accertamento nei confronti di quelle società che erogano i servizi del ciclo idrico, e che erroneamente interpretano la loro condizione soggettiva o l’individuazione dei servizi erogati sottoposti a pagamento CUP, tale da portarle a non versare il canone oppure a versarlo solo parzialmente.
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